La Respirazione

L’organismo umano, per vivere, necessita di ossigeno e di energia. Da tali processi ne derivano altri, con complesse interazioni che creano una reazione tra l’ossigeno ed i substrati chimici alimentari.

Quando nell’organismo si ha una combinazione tra carbonio ed ossigeno si sviluppa, in seguito, calore ed anidride carbonica. Questo processo, detto “di combustione”, è, come molti altri, indispensabile per la vita, a patto che un organismo riesca ad interagire con l’esterno.

Nel caso della combustione organica l’organismo deve assumere ossigeno che si trova nell’ambiente esterno ed in seguito deve essere in grado di espellere l’anidride carbonica, quale sottoprodotto di scarto.

L’apparato adibito all’immissione di ossigeno ed all’eliminazione di anidride carbonica all’esterno dell’organismo, per avviare il processo di combustione, è costituito dai polmoni. Questi ultimi, però, non lavorano soli. Ed infatti il sangue è il veicolo che, assieme ai polmoni, trasporta l’ossigeno e scarta l’anidride carbonica. Da non dimenticare, in questo processo, che il sangue si muove grazie alla fondamentale azione cardiaca, tanto che, un arresto cardiaco, comporta immediatamente anche un arresto respiratorio. Il sangue, grazie al cuore, trasporta ossigeno a tutti i distretti del nostro corpo e porta via l’anidride carbonica che si è creata nei processi ossidativi. Tutto questo avviene in ogni cellula con il nome di “respirazione cellulare”. Per quanto riguarda i processi gassosi tra aria e sangue, i polmoni sono il luogo ove queste fasi avvengono. Questi processi si chiamano EMATOSI.

Analizzando meccanicamente la respirazione possiamo dividerla in 4 fasi:

1 In questa fase primaria, detta di VENTILAZIONE, si ha uno scambio d’aria tra atmosfera e alveoli. In questo primo step vi è dell’aria che entra ed esce dai polmoni. L’aria, distribuendosi nei polmoni sempre in grande volume, va mantenuta costante, al fine di poterla distribuire egualmente all’interno dei milioni di alveoli ivi presenti.

2 Nella fase di DIFFUSIONE si ha uno scambio di ossigeno ed anidride carbonica tra aria alveolare ed i capillari polmonari. Proprio grazie alla fase di diffusione si può notare quanto il flusso sanguigno polmonare sia importante per la distribuzione di ossigeno.

3 Grazie al sangue si ha un trasporto di ossigeno ed anidride carbonica. L’importanza di questa fase sta proprio nel rappresentare un collegamento (TRASPORTO FUNZIONALE) tra il sistema cardiovascolare e quello respiratorio.

4 Ultima e non meno importante fase è quella dello scambio attivo tra sangue e tessuti di ossigeno ed anidride carbonica (grazie al sangue che scorre lungo i capillari tissutali). Questa fase avviene per diffusione e rappresenta il ciclo finale di ventilazione.

 

Meccanicamente l’aria segue questo percorso:

  • NASO O BOCCA
  • LARINGE
  • FARINGE
  • TRACHEA
  • BRONCHI
  • BRONCHIOLI

 

I polmoni, grazie alle loro proprietà elastiche, possono espandersi e contrarsi. All’espansione corrisponde un’immissione di aria al loro interno, mentre, alla contrazione, corrisponde l’espulsione dell’aria in essi presente. L’associazione di espansione e contrazione prende il nome di ATTO RESPIRATORIO, composto da due fasi, dette di “inspirazione ed espirazione”.

INSPIRAZIONE: in questa fase si ha un aumento del volume della capacità toracica causato dalla contrazione dei muscoli inspiratori ( DIAFRAMMA E INTERCOSTALI ESTERNI ), come il DIAFRAMMA, primo per importanza nella respirazione. La sua funzione è quella di abbassarsi quando si contrae, in tal modo aumentando la capacità toracica e permettendo un maggior afflusso di aria nei polmoni. Diversamente, gli INTERCOSTALI ESTERNI causano un innalzamento ed uno spostamento delle costole grazie alla contrazione, anche loro in tal modo contribuendo ad un aumento toracico, assieme al diaframma.

ESPIRAZIONE: avviene del tutto involontariamente poiché consiste nel rilascio del diaframma e degli intercostali esterni che fanno ritornare al volume iniziale la gabbia toracica.

Raffigurazione del muscolo diaframma

Raffigurazione della gabbia toracica

 

In generale un atto respiratorio normale riesce a catturare circa 500ml di aria, ma questo volume, se sotto sforzo o per necessità avvenuta, può aumentare fino a 2000-3000ml . Un uomo normale respira circa 16 volte al minuto, mentre la donna respira un po’ meno; un bambino appena nato, invece, respira 60-70 volte al minuto. Nel nostro organismo, affinché la respirazione funzioni, deve essere presente nel sangue una certa percentuale di anidride carbonica che stimola la respirazione e chiama ossigeno nel corpo. Nel caso in cui l’anidride carbonica presente nell’aria dovesse aumentare e superare il 9%, si verificherebbero velocemente dei problemi respiratori anche gravi.

Le Vitamine

In questo articolo vengono approfondite le differenze tra vitamine liposolubili ed idrosolubili, considerandone il fabbisogno giornaliero che uno sportivo necessita.

Inoltre, è presente anche un breve trattato sulla formazione dei radicali liberi e dei danni muscolari ad essi connessi. I radicali liberi sono una minaccia che lo sportivo non deve sottovalutare.

Gli atleti hanno l’esigenza di ottimizzare l’alimentazione quotidiana in modo da avere energia supplementare per l’allenamento, come anche i nutrienti necessari per i processi di costruzione e riparazione dei corpo.

L’alimentazione per un miglior rendimento sportivo non riguarda soltanto ciò che si mangia prima o dopo l’esercizio fisico che avete prodotto. Ogni giorno bisogna mangiare una varietà di alimenti che forniscano i nutrienti essenziali e l’energia necessaria per espletare le normali attività quotidiane. In quanto atleti però, si ha l’esi­genza di ottimizzare l’alimentazione quotidiana in modo da avere energia supplementare per l’esercizio, come anche i nutrienti necessari per i processi di costruzione e riparazione del corpo. Ci sono sei categorie di nutrienti di cui il corpo ha bisogno per sopravvivere: i quattro nutrienti base noti anche come macronutrienti sono l’acqua, i carboidrati, i grassi, e le proteine, oltre le due classi di micronutrienti che sono le vitamine ed i sali minerali. Per raggiungere quindi il massimo rendimento, tanto nelle attività quotidiane quanto in un programma di training, è necessario introdurre nell’alimentazione le forme più sane di questi nutrienti cercando di mantenere sempre l’equilibrio di macro e micronutrienti più adatto al vostro stile di vita ed al tipo di attività fisica svolta. Purtroppo la tipica alimentazione occidentale comprende quantità eccessive di grassi saturi ed un’eccessiva percentuale di zuccheri semplici. Dobbiamo quindi cercare di aumentare l’assunzione di acidi grassi “buoni”, e diminuire al contempo il consumo di alimenti trattati industrialmente che risultano ricchi di zucchero e poveri di nutrienti essenziali. Quotidianamente i carboidrati, i grassi e le proteine ci forniscono energia per svolgere le nostre attività quotidiane e per le funzioni di conservazione e di ricostruzione del tessuto muscolare oltre che al nostro sistema osteoarticolare. Per ottenere un adeguato apporto di questi macronutrienti, si dovrebbe assumere il 60% di calorie provenienti dai carboidrati, il 25% dai grassi e il 15% dalle proteine. Chi pratica attività sportive, vedrà il proprio fabbisogno aumentare, per cui saranno necessarie maggiori quantità di macronutrienti, prestando bene attenzione all’assunzione di proteine, in modo da bilanciare parte della scomposizione delle proteine che avviene durante l’esercizio fisico. Questo potrebbe essere ottenuto utilizzando integratori proteici nella dieta, soprattutto quelli a basso contenuto di scorie azotate che appesantiscono la funzione renale. Come appare bene evidente la corretta assunzione di macronutrienti è fondamentale per raggiungere e mantenere un buono stato di salute, così come lo sono altrettanto i micronutrienti, vitamine e sali minerali. Questi sono necessari in quantità minime ma sono fonda­mentali per un rendimento ottimale di tutte le nostre funzioni. Questi agiscono da cofattori, ovvero essi devono essere presenti affinché altre sostanze e fattori possano svolgere le loro molteplici e diverse funzioni: sono come le microscopiche viti che consentono agli ingranaggi del nostro orologio di girare e farlo funzionare. Quindi come cofattori sono coinvolti nella produzione di energia, nel trasporto dell’ossigeno, vero elemento vitale dell’uomo, nell’azione muscolare e nella crescita. Rappresentano anche importanti componenti strutturali, oltre al fatto che alcuni tipi di vitamine e di minerali svolgono attività antiossidante, proteggendo organi, apparati e tessuti dal danno dei radicali liberi. Emerge a questo punto quanto delicato e composito risulti articolare una buona alimentazione e l’uso degli integratori non rappresenta una scorciatoia alla soluzione del problema, anche perché non è molto agevole sapere se si assumono vitamine e sali minerali nelle quantità adeguate per garantirsi un buono stato di salute. Per avere la garanzia di soddisfare i fabbisogni di una salute ed un rendimento ottimale è consigliabile seguire un sistema di raccomandazioni alimentari chiamato PDI (Performance Daily Intakes) o Dosi Giornaliere per il Rendimento indicate specialmente per gli sportivi che compensano il maggiore fabbisogno nutritivo che gli atleti hanno rispetto ai non atleti.

Che cosa sono le vitamine

Per soddisfare i bisogni e ottenere un rendimento ottimale si consiglia di seguire il sistema alimentare PDI Performance Daily Intakes – o Dosi Giornaliere per il Rendimento. Le vitamine sono a composti organici che regolano e facilitano milioni di reazioni chimiche che avvengono nel corpo. Non forniscono energia al corpo di per se, ma aiutano la scomposizione dei macronutrienti per produrre energia. Il corpo non è in grado di produrre da solo le vitamine, o quanto meno non in quantità sufficienti, per cui occorre recuperarle dal cibo o dagli integratori. Le tredici vitamine essenziali si dividono in due, gruppi. Un gruppo consiste nelle vitamine liposolubili, che il corpo è in grado di assorbire ed immagazzinare per settimane o mesi nel tessuto adiposo. Il secondo gruppo consiste nelle vitamine idrosolubili, che si trovano nei liquidi corporei, e devono essere integrate ogni giorno perché vengono escrete rapidamente.

LE VITAMINE LIPOSOLUBILI

Le vitamine A,D,E e K sono vitamine liposolubili che il fegato ed i tessuti adiposi immagazzinano finché il corpo non ne ha bisogno. Queste sostanze per essere veicolate ed assorbite richiedono la presenza di grassi nella dieta. La carenza di tali vitamine si riscontra soprattutto in quei soggetti che seguono una dieta povera di grassi. Inoltre occorre essere molto cauti con le integrazioni di queste vitamine tramite integratori, perché quando assunte in eccesso, possono raggiungere livelli tossici, data la foro capacità di accumulo proprio nelle cellule adipose.

La vitamina A


La vitamina A è importante per i suoi effetti positivi sulla vista. Risulta necessaria per la crescita e lo sviluppo cellulare, per il mantenimento e l’integrità dei tessuti epiteliali, che costituiscono la pelle e le cellule che rivestono i tratti respiratori e digerente. Agisce inoltre sulla formazione delle ossa e dei denti ed è fondamentale per il mantenimento in efficienza dei sistema immunitario. Buone fonti di vitamina A sono il fegato, l’olio di fegato di pesce, il rosso d’uovo, il latte intero e derivati come burro, panna e margarina. La vitamina A può essere convertita nel nostro organismo dai carotenoidi, composti chimici che si trovano nel pigmento delle piante rosse e gialle. il più famoso è il betacarotene. che svolge un’azione antiossidante che neutralizza i radicali liberi e i danni da essi provocati.

La PDI di vitamina A varia dalle 5.000 alle 25.000 IU (Unità Internazionali). Per il betacarotene, la PDI può andare dalle 15.000 alle 60.000 IU per gli atleti non impegnati in attività di resistenza, mentre può salire dalle 20.000 alle 80.000 IU per gli atleti impegnati in attività atletiche di resistenza.

La vitamina D


Questo composto favorisce l’assorbimento dei calcio ed il fosforo, che rappresentano due dei fondamentali componenti dei tessuto osseo. Si ritiene che la vitamina D migliori la forza muscolare e anch’essa migliora il funzionamento dei sistema immunitario. La PDI di vitamina D va dalle 400 alle 1000 IU e si trova in alimenti quali: uova, burro, fegato e in alcuni tipi di pesce come aringhe, sgombro, sardine, salmone e gamberi. Anche il latte arricchito con vitamina D è, ovviamente, una buona fonte alimentare.

 

La vitamina E


E’ fondamentalmente un antiossidante e quindi molto importante nel proteggerci dai danni dei radicali liberi. Interviene nei processi di riparazione dei tessuti, in quanto è uno dei fattori di regolazione della coagulazione dei sangue. Le fonti sono rappresentate dagli oli di soia, di mais, di semi di cotone. La vitamina E si trova in quantità sufficienti nelle verdure a foglia verde, nei legumi, nelle noci e nei cereali integrali. La PDI di vitamina E per gli atleti varia dalle 200 alle 1.000 IU.

 

La vitamina K

La vitamina K è un composto fondamentale perché è necessario per la sintesi della protrombina, una proteina cardine dei processo di coagulazione dei sangue. Gli alimenti ricchi di vitamina K sono le verdure a foglia verde, gli asparagi, i broccoli e i cavoli, mentre latte e derivati, uova, cereali e frutta ne contengono una piccola quantità. La PDI va dagli 80 ai 180 microgrammi per persone che praticano attività fisica.

 

LE VITAMINE IDROSOLUBILI

Le vitamine B1 (tiamina), B2 (riboflavina), B3 (niacina), 85 (acido pantoteni­co), B6 (piridossina), B12 (cobalamina) e C (acido ascorbico), l’acido folico e la biotina sono tutte vitamine idrosolubili. Questo significa che il nostro organismo assorbe con facilità questi microcomposti, ma con altrettanta facilità vengono escreti rapidamente con le urine, non si riesce ad immagazzinarli in quantità sufficienti ed è per questo motivo che è importante assumerne dosi adeguate quotidianamente.

 

Il complesso vitaminico B

Le vitamine appartenenti al gruppo B sono importanti coenzimi, ossia cofattori o elementi che consentono agli enzimi di svolgere le loro funzioni, come l’utilizzazione dei carboidrati, i grassi e le proteine per produrre energia.

 

CONOSCIAMOLI MEGLIO
Radicali liberi, i killer delle cellula Radicali liberi

Di recente molti studi si sono concentrati sul rapporto tra la formazione di radicali liberi e i danni muscolari ad essi connessi. Cerchiamo prima di tutto di spiegare cosa sono i radicali liberi: questi si formano come normale conseguenza dei processi metabolici dell’organismo, e possono essere causati anche da fattori ambientali come l’inquinamento e le radiazioni. Tuttavia sarete sorpresi nello scoprire che anche l’esercizio fisico è associato alla formazione di radicali liberi. Cosa sono dunque queste molecole, e quale è la minaccia che rappresentano per l’atleta?

Tutte le cellule dei corpo sono composte da atomi che, a loro volta, contengono coppie di particelle chiamate elettroni. Quando ciascun elettrone di un atomo è accoppiato con un altro elettrone, si parla di atomo stabile. Un radicale libero è un atomo, o un gruppo di atomi (molecola), privo di un elettrone, e viene considerato un elemento molto instabile. Per ritrovare il proprio equilibrio, il radicale libero si attiva per cercare di sottrarre un elettrone ad un altro elettrone. Queste molecole sono note anche come ossidanti perché di solito è l’atomo di ossigeno che perde un elettrone e che quindi sottrae elettroni di altre molecole. Il danno da radicali liberi viene perciò anche chiamato stress ossidativo. E’ stato dimostrato che attività aerobiche a lungo termine, come la corsa, il ciclismo o lo sci di fondo, aumentano la produzione di queste molecole molto instabili. I danni che queste molecole possono determinare sono soprattutto a carico delle membrane delle cellule con le quali vengono a contatto; esse possono essere cellule del sangue o di organi o apparati, come ad esempio l’apparato vascolare dove il danno determinato sulle cellule endoteliali (le cellule che circondano i vasi) può essere considerato propedeutico ai danni cardiovascolari. Inoltre attaccano le pareti delle cellule muscolari e dei mitocondri (piccoli organelli intracellulari che sono fondamentali nella produzione di energia), dove provocano la scomposizione delle proteine e sono anche, almeno in parte, responsabili delle infiammazioni e del dolore muscolare, tutte condizioni che contribuiscono a ridurre la resistenza.

Le ricerche hanno dimostrato che gli antiossidanti possono essere elementi fondamentali nel ridurre il dolore muscolare post esercizio e limitare i danni dello stress ossidativo. Le vitamine e nutrienti simili alle vitamine possono neutralizzare l’azione dei radicali liberi. La vitamina E e la vitamina C sono tra i più noti ed efficienti antiossidanti.

A cura di SPORT & MEDICINA
www.sportmedicina.com
autore: Fausto Spagnoli (Unità Endocrino Metabolica)
da “SPORT E SALUTE” (Anno I, numero 2 – Novembre 2004)

La disidratazione, il rischio di chi pratica sport durante la stagione calda

L’Estate è arrivata e il caldo aumenta… Chi pratica sport come si deve comportare?

E’ arrivata l’estate e, come ogni anno, le previsione delle temperature che caratterizzeranno le prossime settimane assumono toni allarmanti. Campagne di sensibilizzazione per la prevenzione dei colpi di calore invadono i mezzi di informazione. La prima indicazione è bere tanto, bere anche se non si avverte la sete, bere oltre la sete.

Bere favorisce la dispersione del calore ed il mantenimento della temperatura corporea.

Oltre i liquidi è necessario integrare la razione alimentare con abbondanti porzioni di frutta, ortaggi e verdure fresche di stagione, che contengono tutte le sostanze ed i nutrienti necessari per contrastare gli effetti del caldo eccessivo.

Infine, cercare di passare un certo numero di ore al giorno in ambienti freschi: l’organismo avvertirà il beneficio di una adeguata escursione termica. Queste poche regole garantiscono il risultato per tutta la popolazione in generale, ma il popolo dello sport come si deve comportare? Fermo restando per tutti l’importanza di arrivare correttamente idratati e nutriti alla prestazione sportiva, è bene evitare di svolgere la propria attività nelle ore più calde della giornata, specie se all’aperto e se si tratta di sportivi amatoriali; e, naturalmente, bere durante l’attività.

Ma bere cosa? L’offerta di acque, di bevande in generale e di bevande “per lo sport” è in continuo aumento. Cosa scegliere?

Nella stragrande maggioranza dei casi l’acqua fresca è la bevanda ideale alla temperatura di 4-7°C.

Ma, per contrastare il rischio di disidratazione, è lecito ricorrere anche a bevande che possono risultare più gradevoli al palato, tenendo sempre in considerazione l’apporto calorico eventualmente contenuto e l’eventuale presenza di sostanze stimolanti (caffeina, etc..).

Diverso è l’approccio per coloro che svolgono attività agonistiche.

La perdita di liquidi, con conseguente produzione di sudore, aumenta con l’intensità dell’esercizio fino ad 1,5-2l all’ora, con punte di 2-4l in soggetti particolarmente allenati che raggiungono elevati livelli di intensità di lavoro muscolare. Per contro, va considerato che, l’assunzione spontanea di liquidi durante un esercizio intenso, non riesce a coprire oltre il 50% delle perdite.

Le pratiche sportive che risentono maggiormente della perdita di liquidi sono quelle di resistenza (prevalentemente aerobiche e, comunque, prolungate nel tempo) con durata superiore alle due ore. Per queste discipline, specie se praticate in condizioni climatiche a temperatura ed umidità elevata, anche la sola assunzione di acqua, in grande quantità, potrebbe comportare “iperidratazione”, associata ad una riduzione del sodio ematico, ossia, una ritenzione idrica che avrebbe, come conseguenza, la non corretta idratazione dei tessuti, con perdite eccessive di sodio e conseguente predisposizione al collasso.

I fattori che possono causare la condizione sopra descritta sono, ad esempio, il clima particolarmente caldo associato ad elevata umidità; l’appartenenza al sesso femminile (per una maggior quantità di acqua presente nei tessuti nella donna) ed altri fattori che possono influire sulla prestazione.

In questi casi, il consumo di soluzione con maltodestrine ed elettroliti durante l’esercizio, aiuta a mantenere la corretta idratazione ed a prevenire l’iposodiemia.

Verifiche sulla distribuzione corporea dei liquidi suggeriscono che, durante la pratica di un’attività di resistenza prolungata oltre le due ore, in condizioni di alta temperatura, le elevate perdite di liquidi risultano maggiormente controllate dall’ingestione di bevande con elettroliti che non dalla semplice assunzione di acqua.

Infatti, anche se l’introduzione di sola e semplice acqua durante l’esercizio riduce, evidentemente, la perdita di liquidi, l’aggiunta di elettroliti in proporzioni adeguate, oltre a ridurre ulteriormente la perdita di liquidi totali, minimizzerà la perdita di fluidi intracellulari, migliorando sensibilmente le condizioni di idratazione che favoriscono la prestazione sportiva. Anche se le condizioni descritte rappresentano situazioni estreme, l’ideale sarebbe che ogni atleta professionista “confezionasse” la propria bevanda, con un aiuto di uno specialista secondo le esigenze personali dettate dalle caratteristiche individuali, il tipo di allenamento e l’impatto ambientale sulla sudorazione e lo stress da calore.

Inutile sottolineare che comportamenti estremi, come la drastica riduzione dell’introito di liquidi durante alcuni periodi di allenamento – per il raggiungimento di chissà quali chimere – è assolutamente da evitare sempre, a maggior ragione in estate.

 

Francesco Crisafulli,
Personal Trainer e 2 volte campione Italiano F.I.P.C.F. CONI.

Gli aminoacidi essenziali (EAA) questi sconosciuti

Sono definiti essenziali quegli aminoacidi che l’organismo umano non riesce a sintetizzare in quantità sufficiente per far fronte ai propri bisogni. Per l’adulto sono otto e più precisamente: fenilalanina, isoleucina, lisina, leucina, metionina, treonina, triptofano e valina, quindi i BCAA a differenza della Glutammina, sono anche aminoacidi essenziali.

A quanto ho potuto constatare, il mercato è insolitamente scevro di questo prodotto che è tuttavia ottimo (per non parlare del rarissimo kr+ala, ma questa è un’altra storia… N.d.R.), e quando mi sono messo alla ricerca di studi che confermassero le mie impressioni, mi sono trovato davanti a qualcosa di molto incoraggiante, così mi accingo prontamente a condividere le mie nozioni su questo articolo.

Alla Charles Strurt University australiana hanno fatto uno studio; scopo di tale trial era cercare di capire la correlazione che c’è tra l’ingestione di carboidrati liquidi e l’ingestione degli EAA, assunti singolarmente o in associazione, su parametri quali risposta ormonale e degradazione della proteina miofibrillare (usando l’escrezione della 3-metilistidina [3-MH] come marker).

32 maschi di età compresa tra i 18 e i 29 anni hanno eseguito una singola sessione di pesi (full body) con schema 3×10 al 75%1RM, 1 minuto di pausa tra una serie e l’altra; durante il workout, a 8 canditati è stata somministrata una soluzione liquida al 6% di carboidrati (gruppo C), ad altri 8 è stata somministrata una mistura di 6gr di EAA, ad altri 8 una combinazione dei due precedenti (C+EAA) e agli ultimi 8 un placebo.

60 minuti dopo l’allenamento il gruppo a placebo ha esibito un innalzamento dei livelli di cortisolo (certo che si!! N.d.R.) del 105% senza alcun cambiamento nelle concentrazioni plasmatiche di glucosio o insulina; il gruppo C e il gruppo C+EAA hanno manifestato un decremento della cortisolemia rispettivamente dell 11% e del 7%, ma per quanto riguarda la degradazione della proteina miofibrillare ci sono state notevoli e interessanti differenze:

l’ingestione di EAA o C hanno attenuato l’escrezione della 3-MH 48 ore dopo la sessione di allenamento, e questa risposta si è manifestata ancor più marcata in somministrazione combinata C+EAA (riduzione del 27% dell’escrezione della 3-MH) e naturalmente il gruppo a placebo ha invece manifestato un incremento del 56% dell’escrezione del sopramenzionato marker. Questi dati ci hanno dimostrato che la combinazione C+EAA non solo ha un diretto effetto soppressivo sul cortisolo, ma inibisce direttamente la degradazione delle proteine miofibrillari.

L’unica nota negativa, devo riconoscerlo, è che gli EAA puri hanno un saporaccio e una puzza davvero terribile, quindi l’ideale è acquistare una di quelle opercolatrici manuali e incapsulare gli opercoli da un grammo l’uno, comunque sia personalmente non vado al risparmio: durante il WO disciolgo in 2L di acqua, uno-due dita di latte di mandorla , 10gr di EAA in polvere e 10gr di BCAA in polvere, poi aggiungo o palatinosio o vitargo secondo le esigenze. In questo modo riesco ad assumere grandi quantità di aminoacidi senza far penare il mio stomaco e il mio palato. A proposito, date alle polveri il tempo per disciogliersi completamente (preparate la mistura almeno 2 ore prima).

Nel prossimo articolo vi mostrerò degli studi che confermano un diretto, complesso, ma ancora non del tutto chiarito effetto “ergogenico” dei BCAA (cosa che spiegherebbe almeno in parte l’efficacia degli EAA) e proveremo a smentire l’efficacia di altri integratori quali la glutammina. Inoltre proveremo a capire cosa è meglio assumere nel post WO ai fini del recupero muscolare.

Al prossimo articolo allora.

 

 

Liquid carbohydrate/essential amino acid ingestion during a short-term bout of resistance exercise suppresses myofibrillar protein degradation.Bird SP, Tarpenning KM, Marino FE.

School of Human Movement Studies, Charles Sturt University, Bathurst, NSW 2795, Australia.

Un rigraziamento speciale
all’ autore e redattore dell’ articolo: Enrico De Stefani

I Muscoli Addominali

Dal punto di vista anatomico con il termine “addominali” si definiscono sia i muscoli antero-laterali che i muscoli posteriori dell’ addome.

In questa prima analisi ci occupiamo dei soli muscoli antero-laterali, degli aspetti cinesiologici, delle metodologie di allenamento e degli esercizi che normalmente vengono utilizzati.

Muscoli antero-laterali dell’ addome e movimenti che compiono

1) Retto dell’addome:
– flette il tronco e lo inclina dal proprio lato;
– abbassa le costole e agisce come espiratore.
2) Obliquo esterno (o Grande obliquo) e
3) Obliquo interno (o Piccolo obliquo):
– flettono, inclinano dal proprio lato e ruotano il tronco;
– abbassano le costole e agiscono come espiratori.
4) Trasverso:
– ruota il tronco e abbassa le costole (espiratore);
– interviene particolarmente nella espirazione forzata.

 

 Linee di azione dei muscoli antero-laterali dell’ addome

 

 MANTENIMENTO DELL’ EQUILIBRIO FISIOLOGICO DEL BACINO

I muscoli dell’addome costituiscono un sistema la cui tonicità assolve diverse funzioni importanti. Infatti, oltre a garantire la tenuta dei visceri e contribuire ad una corretta meccanica respiratoria, hanno un ruolo determinate nell’equilibrio fisiologico del bacino in quanto, i muscoli che vi si inseriscono, possono indurre un movimento rotatorio comportandosi come una coppia di forze.
I muscoli flessori del busto (Retto dell’addome, Obliquo esterno ed Obliquo interno), e gli estensori delle cosce (Grande gluteo, Bicipite femorale nel capo lungo, Semitendinoso, Semimembranoso, Grande adduttore, Piriforme) tendono a ruotare il bacino in retroversione, quindi hanno una azione delordosizzante per la colonna lombare. Al contrario, i muscoli estensori del busto (Sacrospinale, Quadrato dei lombi, Spinali, Interspinali, Multifidi, Intertrasversari, Gran dorsale, Dentato posteriore inferiore) ed i flessori delle cosce (Psoas iliaco, Retto anteriore del Quadricipite femorale, Sartorio, Tensore della fascia lata, Pettineo, Lungo adduttore, Breve adduttore, Gracile) tendono a far ruotare il bacino in anteroversione, quindi hanno un’azione lordosizzante per la colonna lombare (Figura).

Equilibrio del bacino sul piano sagittale

 

Effetti dell’ indebolimento dei muscoli deputati alla rotazione
del bacino in retroversione

I muscoli flessori del busto e gli estensori delle cosce (a) tendono a ruotare il bacino in retroversione (rotazione in senso antiorario rispetto alla figura), quindi hanno un’azione delordosizzante per la colonna lombare.
Al contrario, i muscoli estensori del busto ed i flessori delle cosce (b) tendono a far ruotare il bacino in anteroversione (rotazione in senso orario rispetto alla figura), quindi hanno un’azione lordosizzante per la colonna lombare.
Va tenuto presente che una fascia addominale opportunamente rafforzata permette di scaricare circa il 40% del peso gravante sulle vertebre lombari.

L’ indebolimento dei muscoli Flessori del busto ed Estensori delle cosce
comporta un anteroversione del bacino e conseguente accentuazione della lordosi lombare

 

Un’azione preventiva o di ristabilimento della situazione anatomo-fisiologica della regione lombo-sacrale dovrebbe seguire due direttive principali:

  • Mantenere sempre forti i muscoli flessori del busto e gli estensori delle cosce in quanto portano il bacino in posizione di retroversione (azione delordosizzante). In questo modo la lordosi lombare tende ad attenuarsi ed i carichi discali vengono scaricati perpendicolarmente ed in maniera equamente distribuita su tutta la superficie delle vertebre.
    Il rafforzamento deve essere effettuato con contrazione (flessione del tronco) completa e stiramento (estensione del tronco) incompleto. Questa modalità di esecuzione modifica nel tempo la struttura anatomo-funzionale del muscolo in modo che il ventre muscolare diventa più corto ed i tendini rimangono invariati. A riposo la lunghezza diventa più corta.
  • Allungare e mantenere elastici i muscoli estensori del busto in quanto contrastano la retroversione del bacino (azione lordosizzante). Pertanto oltre agli esercizi di stretching va attuato un rafforzamento muscolare con esercizi con contrazione (estensione del tronco) incompleta e stiramento (flessione del tronco) completo.
    Questa modalità di esecuzione modifica nel tempo la struttura anatomo-funzionale del muscolo in modo che il ventre muscolare diventa più corto ed i tendini più lunghi. A riposo la lunghezza aumenta.
    Come già detto, una cintura addominale opportunamente rafforzata permette di scaricare circa il 40% del peso gravante sulle vertebre lombari. Un notevole alleggerimento del carico sulle vertebre è anche determinato dalla corretta posizione del busto durante l’esecuzione degli esercizi.

METODI ED ESERCIZI PER ALLENARE IN MANIERA SELETTIVA E SPECIFICA I MUSCOLI ANTERO-LATERALI DELL’ADDOME

  • Ridurre, quanto più possibile, l’intervento dei muscoli flessori delle cosce (Psoas iliaco, Sartorio, Tensore della fascia lata, Pettineo, Retto anteriore del Quadricipite femorale, Lungo adduttore, Breve adduttore, Gracile). Pertanto è necessario mantenere sempre le cosce flesse sul bacino. In questa posizione i capi di inserzione estrema di questi muscoli risultano ravvicinati e, quindi, non possono esercitare un’efficace azione dinamica (Figura).
  • Il movimento di flessione del torace sul bacino e viceversa, deve tendere ad avvicinare i due capi estremi di inserzione dei muscoli antero-laterali dell’addome, quindi il pube e le creste iliache allo sterno (Figura).
  • Nella esecuzione delle torsioni tra il torace e il bacino, movimento che ha lo scopo di accentuare l’intervento sui muscoli Obliqui, per effettuare correttamente l’esercizio è necessario frenare il movimento prima che ciascuna rotazione sia conclusa e ripartire senza sfruttare il movimento passivo di ritorno. Il movimento di torsione, mirato al rafforzamento dei muscoli Obliqui, non deve mai raggiungere la posizione di massima escursione. Questo metterebbe in tensione anomala le fibre esterne e centrali dell’anello fibroso (disco intervertebrale) delle vertebre lombari con conseguente tendenza alla lacerazione delle fibre e un aumento notevole della pressione sul nucleo interno dell’anello che, specialmente si si esegue contemporaneamente anche una flessione, viene spinto all’esterno.

Riduzione della tensione dei muscoli flessori della coscia

Nella posizione supina, l’allineamento delle cosce col bacino mette in tensione i muscoli flessori della cosce, in particolar modo lo Psoas iliaco (PI) che, a causa dell’inserzione prossimale sulle ultime vertebre lombari, tende a accentuare la lordosi lombare.
Con la flessione delle cosce a circa ai 60° inizia a muoversi il bacino in quanto inizia anche l’azione dinamica dei muscoli addominali (Ad). Nel contempo si determina un avvicinamento dei capi di inserzione e, quindi, l’incapacità di intervenire in maniera attiva nel movimento da parte dei muscoli flessori delle cosce. Tutto questo si evidenzia all’esterno con l’attenuazione della lordosi lombare.

Come si localizza il lavoro sui muscoli addominali

Il lavoro dinamico dei muscoli addominali inizia quando il bacino comincia a ruotare e termina con il massimo avvicinamento tra la gabbia toracica ed al pube.

Nella FLESSIONE DEL TORACE SUL BACINO si ottiene:
a) un lavoro dinamico localizzato dei muscoli addominali (a) quando la regione lombare ed i glutei rimangono a terra e la rotazione avviene intorno alle vertebre lombari;
b) un lavoro statico dei muscoli addominali (Ad) se la rotazione prosegue fino alla posizione seduta. Il proseguimento dell’azione avviene grazie ai muscoli flessori delle cosce sul bacino, soprattutto lo Psoas-Iliaco (PI) e Retto anteriore (Re) del Quadricipite femorale.
Nella posizione intermedia, con i lombi sollevati dal suolo, il carico vertebrale lombare è notevole e raggiunge i 170-180 Kg in una persona di taglia media.

Nella FLESSIONE DEL BACINO SUL TORACE si ottiene un impegno dinamico e localizzato dei muscoli addominali quando il bacino si solleva e si avvicina il più possibile al torace, facendo perno sulle vertebre lombari. La posizione di cosce flesse permette di attenuare l’intervento dei muscoli flessori delle cosce, in particolare dello Psoas-Iliaco.
L’utilizzo di un piano inclinato permette di spostare il massimo braccio di leva, quindi il carico ottimale, su diversi angoli di flessione.

(1) Il numero di allenamenti settimanali mediamente è di 3 unità.
(2) Le percentuali di carico sono correlate al numero di ripetizioni che si riesce ad eseguire in una serie portata a “esaurimento”. Pertanto non è necessario, anzi sconsigliato, eseguire test di carico massimale. La percentuale di carico viene identificata nel modo seguente:
85% = 4-5 rip.; 80% = 6-7 rip.; 75% = 8-9 rip.; 70% = 10-11 rip.; 65% = 12-14 rip.; 60% = 15-16 rip.; 55% = 17-20 rip.; 50% = 21-25;
(3) Per esaurimento si intende l’ultima ripetizione possibile nella singola serie eseguita correttamente. Nel Bodybuilding questo concetto viene esasperato utilizzando anche varie strategie di affaticamento.
(4) La fase di estensione del busto deve comunque essere fluente e controllata.

Esempi di esercizi e rispettivo impegno muscolare

Prevalente impegno del muscolo Retto dell’addome

Impegno simultaneo dei muscoli Retto e Obliqui dell’addome

Prevalente impegno dei muscoli Obliqui dell’addome

A cura di SPORT & MEDICINA
www.sportmedicina.com
Testo e disegni di Stelvio Beraldo
Maestro di Sport

Il Fegato: fenomeni degenerativi

Quelli di maggiore importanza sono rappresentati dall’amiloidosi epatica e dalla steatosi. L’amiloidosi è sempre secondaria ad altre affezioni generalmente di lunga durata. Il fegato si presenta aumentato di volume, duro e pallido ed alla superficie di taglio spicca l’aspetto lardaceo.

All’esame istologico si rinviene la presenza di sostanza amiloide negli spazi perisinusoidali dei lobuli. La sostanza amiloide risulta formata essenzialmente da glicoproteine e da mucopolisaccaridi acidi solforati. Anche qui la sintomatologia è quella della malattia che sostiene il processo degenerativo. La steatosi epatica, o degenerazione grassa, è una manifestazione legata ad intossicazioni croniche, tra le quali occupa un posto preminente l’alcoolismo cronico.

Il fegato è discretamente aumentato di volume, con margini arrotondati e di consistenza notevolmente diminuita per cui il parenchima è flaccido.

La superficie di taglio appare giallastra con strie verdastre per imbibizione biliare e gli acini si distinguono con difficoltà. All’esame istologico si rileva che le cellule maggiormente interessate sono quelle perilobulari, il cui citoplasma appare pieno di grasso ed il cui nucleo è schiacciato ed addossato alla parete citoplasmatica; inoltre non mancano fenomeni di citolisi e piccoli focolai di necrosi. Negli stadi inoltrati, si osserva proliferazione dei fibroblasti che tendono ad avvolgere i singoli lobi. La sintomatologia è caratterizzata da anoressia, astenia, turbe dispeptiche e compromissione dello stato generale. I fenomeni di necrosi si riscontrano in molte affezioni epatiche che vanno dall’epatite virale all’atrofia giallo acuta. Quest’ultima è una gravissima affezione epatica caratterizzata dalla necrosi diffusa e dall’atrofia del parenchima epatico. Le cause che la provocano possono essere molteplici, tra queste ricordiamo:

l’epatite virale, la febbre gialla, la spirochetosi ittero emorragica, gravi tossicosi gravidiche, avvelenamenti. Il fegato appare notevolmente diminuito di volume e pertanto presenta la glissoniana rugosa, la sua consistenza è notevolmente ridotta ed il parenchima è particolarmente friabile. Il colorito varia dal giallo verdastro nelle fasi precoci, al giallo rossastro nelle fasi più tardive. All’esame microscopico, il reperto caratteristico è rappresentato dalla presenza di focolai di necrosi essenzialmente centrolobulari, diffusi ad un gran numero di cellule epatiche, mentre altre cellule presentano fenomeni di degenerazione grassa. La sintomatologia è caratterizzata da ittero intenso, disturbi gastro-intestinali, contrazioni muscolari, stato soporoso. I casi fulminanti portano a morte entro pochi giorni, altri casi, di minore gravità, possono decorrere in modo sub-acuto con possibilità di sopravvivenza ma con evoluzione cirrogena (cirrosi post-necrotica). Con il termine di epatite si definisce invece un processo infiammatorio che interessa il parenchima epatico, indipendentemente dall’agente etiologico responsabile. Le epatiti si dividono in acute e croniche, queste seguono alle prime, ma a volte possono insorgere come tali in modo primitivo. Tra le forme acute ricordiamo: le epatiti purulente e l’epatite virale; quelle purulente si identificano nell’ascesso epatico, generalmente causato dal bacterium coli, stafilococchi e streptococchi: la raccolta ascessuale è delimitata da una capsula che contiene materiale necrotico di colorito giallo verdastro; si manifesta con febbre di tipo settico, dolore all’ipocondrio destro con irradiazione alla spalla omolaterale, leucocitosi neutrofila. Un tipo particolare ne è l’ascesso amebico, conseguenza di una amebiasi intestinale; esso può manifestarsi in forma unica, più difficilmente sotto forma di microascessi multipli. Anche questa cavità è delimitata da una membrana, ma contiene un liquame necrotico e brunastro. In effetti in questo caso si tratta di una necrosi massiva enzimatica del tessuto epatico. La sintomatologia è caratterizzata dall’improvviso rialzo termico durante una amebiasi intestinale e da dolore puntorio in sede epatica. L’epatite virale è una malattia infettiva contagiosa, generalmente a decorso acuto con andamento benigno, ma con possibilità di volgere verso la cronicizzazione a cui può seguire anche una particolare forma di cirrosi e che a volte, sia pure molto raramente, può complicarsi per l’insorgenza dell’atrofia giallo acuta del fegato. Attualmente se ne conoscono due tipi: l’epatite epidemica o iniettiva, provocata dal virus A, e l’epatite da siero o post trasfusionale, provocata dal virus B. Pur essendo certi che l’affezione è determinata da un virus filtrabile, ancora il virus responsabile non è stato isolato, né la scoperta dell’antigene australia, isolato dal siero di un australiano convalescente di epatite, ha perfettamente chiarito l’importanza che spetta a questo antigene, in quanto l’antigene si può riscontrare anche in soggetti che non hanno mai sofferto di epatite ed, in quelli affetti da epatite, il test HAA (antigene australia) è positivo con una variabile percentuale dal 75 al 25%. Il reperto anatomico è di notevole interesse ed è perfettamente conosciuto grazie alla biopsia epatica effettuata in stadi diversi del decorso della malattia. Nelle prime fasi si riscontrano fenomeni degenerativi isolati, a cui seguono focolai di necrosi cellulare che, nella fase precedente l’ittero, sono isolati, mentre successivamente diventano più estesi. Nella fase itterica, si osservano inoltre degenerazione vacuolare del, citoplasma ed alterazioni palloniformi del nucleo delle cellule interessate. La caratteristica fondamentale è rappresentata dalla presenza, nel citoplasma di queste cellule, di piccoli corpi rotondeggianti, detti corpi acidofili per le loro qualità tintoriali. Nei canalicdli biliari situati in vicinanza delle cellule colpite si riscontrano piccoli trombi biliari; i focolai di necrosi non sono estesi, ma disseminati sulla superficie del lobulo, prevalentemente nelle zone centrali; in essi le fibre argentofile presentano lievi alterazioni, mentre si riscontrano cellule di Kupffer, mononucleati di tipo linfomonocitario, rari neutrofili, eosinofili e fibroblasti. L’infiltrato infiammatorio è più accentuato in prossimità degli spazi portali, dove i canalicoli biliari presentano fenomeni distruttivi e degenerativi accanto a tentativi di neoformazione. Segue la fase risolutiva, caratterizzata dalla regressione dei fenomeni necrotici e dalla comparsa di cellule rigenerate che assumono il normale orientamento laminare; gli infiltrati si riducono man mano e ultimi a scomparire sono quelli localizzati negli spazi portali; ancora tuttavia per settimane o mesi, si possono riscontrare fibroblasti, fibrocidi e cellule istioidi, espressione di attivazione del mesenchima. La sintomatologia variabile da caso a caso è fondamentalmente caratterizzata da astenia, febbre e anoressia. L’ittero in linea di massima insorge con la caduta della febbre, ma in molti casi l’infezione virale decorre senza ittero. Nella forma tipica la malattia si risolve in qualche settimana; nell’ 1 % dei casi, il decorso è molto grave e conduce a morte in breve tempo con un quadro di atrofia giallo acuta; nel 5-10% dei casi si protrae per un periodo di 3-4 mesi ma si conclude con la guarigione, in altri casi ancora evolve nella forma cronica. Le epatiti croniche si suddividono in: epatiti croniche evolutive, ed epatiti croniche stabilizzate, queste ultime rappresentate dalla tubercolosi del fegato dall’epatite luetica e dalla fibrosi portale. Per mezzo della biopsia epatica è stato possibile conoscere con precisione il quadro istologico caratterizzato da:

infiltrazione infiammatoria uniforme di piccoli tratti portali, costituita da linfociti, istiociti e qualche plasmacellula, raramente neutrofili ed eosinofili; modesto aumento del numero dei duttuli, architettura lobulare rispettata, mentre alcuni epatociti periportali possono presentare aspetti degenerativi. Si osservano, inoltre, modeste proliferazioni mesenchimali focali nei lobuli e rari residui macrofagi carichi di pigmento. Clinicamente si manifesta con astenia ed epatomegalia e mancano i segni di una malattia cronica vera e propria. Nel siero dopo il primo anno il tasso delle transaminasi può oscillare tra i limiti della norma ed un lieve aumento; le gamma globuline si mantengono normali. La prognosi è buona, in quanto difficilmente si ha l’evoluzione in cirrosi. L’epatite cronica aggressiva si differenzia dalla forma precedente, per più gravi alterazioni portali e periportali. Le relazioni tra questa e l’epatite virale non sono sempre dimostrabili, ma in molti soggetti risultava nell’anamnesi una infezione virus epatitica, mentre in altri è stato isolato dal siero l’antigene australia. Dal punto di vista istologico, l’elemento caratteristico è rappresentato da una grave infiammazione periportale aggressiva che supera i limiti del tratto portale e si estende oltre la lamina limitante con necrosi del parenchima periferico. Nei tratti portali piccoli e grandi si riscontrano infiltrazioni infiammatorie costituite da:

linfociti, istiociti e plasmacellule, scarsi neutrofili ed eosinofili. Contemporaneamente sì determina una proliferazione dei duttuli biliari. Attorno alle cellule epatiche si accumulano fibre collagene e cellule mesenchimali da dove, in seguito, si formeranno setti di tessuto connettivo che si estenderanno entro il parenchima, con formazioni di setti intralobulari alterandone la normale struttura. La combinazione della necrosi parcellare, della infiltrazione infiammatoria e della proliferazione dei canalicoli biliari, sta a dimostrare lo stato di attività della noxa morbigena. La triade sintomatologica è rappresentata da: astenia, subittero o ittero franco, dimagrimento. L’epatite cronica aggressiva non corrisponde alla cirrosi, sebbene in questa possa evolvere con una notevole frequenza; in alcuni casi si può avere la guarigione clinica, in altri una relativa stabilizzazione, meno frequente è l’esito nei coma epatico per atrofia sub-acuta dei fegato- L’epatite lupoide, o epatite cronica di Waldestrom, è un’affezione lentamente progressiva che si manifesta prevalentemente in ragazze giovani in coincidenza della crisi puberale o subito dopo questa. La definizione di epatite lupoide è nata dalla frequente presenza in questi soggetti di cellule L.E. (cellule riscontrate per la prima volta nelle persone affette da lupus eritematoso, ma non specifiche di questa malattia). Facilmente si riscontra un’associazione con la tiroidite di Hashimoto o con colite ulcerosa o con artralgie o periarterite nodosa, motivo per cui va considerata come una malattia autoimmune. Dal punto di vista istologico il quadro è dominato da estesi infiltrati linfomonocitari in prossimità degli spazi portali, infiltrazioni di plasma-cellule con zone di necrosi cellulare in periferia dei lobuli. La tendenza all’evoluzione cirrogena è notevole. La sintomatologia clinica è dominata da disturbi mestruali, astenia, febbricola, subittero, ipergammaglobulinemia e, nella fase avanzata, da varici esofagee. Le cirrosi epatiche sono affezioni a decorso cronico progressivo, che portano nella totalità dei casi alla grave insufficienza epatica, caratterizzate dal punto di vista microscopico da necrosi e steatosi cellulare, fibrosi diffusa e principalmente dall’intimo sovvertimento del piano strutturale del fegato. Le due forme principali di cirrosi sono:

la cirrosi comune con le sue varietà, e la cirrosi biliare. La cirrosi comune viene ancora suddivisa in: cirrosi micronodulare, macronodulare e mista. In effetti il quadro clinico ed anatomopatologico sono sempre uguali, fatta eccezione per la grandezza dei noduli. La forma paradigmatica delle cirrosi è l’a cirrosi atrofica di Morgagni Laennec. Il fegato si presenta di volume rimpicciolito con capsula ispessita, la superficie è cosparsa di noduli di varia grandezza e la sua consistenza è sempre aumentata. La superficie di taglio si presenta di colorito grigio con sfumature giallastre e con aree nodulari multiple delimitate da tessuto connettivale sclerotico. Microscopicamente spicca la profonda alterazione della struttura lobulare. Gli spazi porto biliari sono riuniti tra di loro da connettivo collageno, il quale si spinge nello spessore dei singoli lobulì suddividendoli. In questo tessuto connettivo si rinvengono piccoli vasi venosi e canalicali biliari trombizzati. A volte questo tessuto, specie nelle fasi iniziali, è infiltrato da elementi infiammatori. Molte cellule presentano gravi alterazioni regressive ed infiltrazione grassa, altre sono in preda a necrosi coagulativa. Accanto a queste alterazioni, si rinvengono le formazioni di pseudolobuli, da parte di cellule epatiche variamente orientate, non radialmente e senza precisi rapporti con la vena centrolobulare, il che esprime la rigenerazione nodulare. Le cellule rigenerate sono di dimensioni maggiori della norma e presentano due o più nuclei. Ne deriva un pervertimento strutturale del parenchima epatico, che costituisce il quadro caratteristico della cirrosi. La sintomatologia è legata alla manifestazione del versamento ascitico, poiché, prima della comparsa dell’ascite, i segni clinici sono molto vaghi e rappresentati da astenia, anoressia, meteorismo. Nel periodo ascitico, compaiono edemi agli arti inferiori, varici esofagee, e lo stato generale appare notevolmente compromesso. Le proteine del sangue presentano un’inversione del normale rapporto albumine globuline, per diminuzione delle albumine ed aumento delle gamma globuline. La prognosi è sempre infausta. La cirrosi a grossi nodi si identifica nella cirrosi post-necrotica che segue a necrosi epatiche massive quasi sempre in corso di epatite virale. Quello che differenzia questo tipo dalle altre forme di cirrosi è la presenza di vaste aree di fibrosi con voluminosi noduli di rigenerazione, per cui si notano aree depresse e compatte di fibrosi che interessano estesi tratti di fegato e noduli di rigenerazione, in numero limitato, di enormi dimensioni. Dal punto di vista microscopico si differenzia per la presenza di zone in cui è ancora riconoscibile il normale parenchima epatico, per la rigenerazione eccessiva, ma con riproduzione della normale struttura lobulare, e per l’assenza o quasi di degenerazione grassa degli epatociti. Nella cirrosi biliare, a differenza delle forme sopradescritte, il fegato è ipertrofico per il prevalere dei fenomeni di rigenerazione sulla necrosi. La superficie è generalmente liscia ed il colorito del parenchima è verdastro. Istologicamente si reperta una grave infiammazione a livello degli spazi portali, che si dirige alla periferia dei lobuli seguendo i dotti biliari interlobulari, il cui lume contiene elementi infiammatori nonché trombi biliari. Successivamente si ha un aumento del tessuto connettivale negli spazi portali e da qui si infiltra tra i lobuli suddividendoli. Negli stadi terminali il quadro miscroscopico è sovrapponibile a quello della cirrosi comune. Le principali affezioni delle vie biliari sono: l’angiocolite, la colecistite, la calcolosi della colecisti e le neoplasie. L’angiocolite è un processo infiammatorio delle vie biliari intra ed extra-epatiche, sostenuta da germi diversi (bacterium coli, stafilococchi, streptococchi). L’alterazione anatomica consiste in un turgore della mucosa, desquamazione dell’epitelio, infiltrazione leucocitaria ed iperproduzione di muco. Ne deriva che la sintomatologia è dominata dalla febbre, dolore all’ipocondrio destro ed ittero. Per colecistite si intende un processo infiammatorio della vescichetta biliare che riconosce nella etiologia batteri diversi (bacillo del tifo, bacterium coli, ed alcuni germi anaerobi). Le alterazioni anatomiche consistono in edema della mucosa, infiltrazione leucocitana, ipersecrezione di muco. Quando si produce un’occlusione della colecisti per eccessivo edema dei collo, si determina una notevole dilatazione della colecisti che va sotto il termine di idrope; ove il contenuto si trasformi in essudato purulento, si ha l’empiema della colecisti. I segni clinici della colecistite infiammatoria sono: dolore a tipo colica ad insorgenza in sede epigastrica o nell’ipocondrio di destra con irradiazione alla spalla destra, brividi, febbre, nausea, vomito biliare, raramente subittero. La colelitiasi è una affezione morbosa, caratterizzata dalla presenza di calcoli nella colecisti. I calcoli possono essere costituiti da colesterina o da bilirubinato di calcio, oppure sia dall’una che dall’altro. Possono essere di varia grandezza, da un grano di pepe ad un uovo di piccione, multipli o unico. Possono passare inosservati per tutta la vita oppure dar luogo a manifestazioni dolorose ed infiammatorie, in tal caso il quadro clinico non differisce sostanzialmente da quello della colecistite infiammatoria. A volte i calcoli di piccola dimensione possono migrare nel coledoco ed occluderlo determinando ittero per stasi biliare. I principali tumori delle vie biliari sono: il carcinoma della cistifellea ed i carcinomi dei dotti biliari extraepatici. lì carcinoma della colecisti può presentarsi sotto forma di adenocarcinoma di aspetto gelatinoso, cancro ad epitelio piatto e scirro. Questo infiltra tutta la colecisti e tende ad infiltrare anche gli organi vicini. La sintomatologia facilmente viene confusa con quella di una banale affezione della colecisti, differisce essenzialmente per la rapida compromissione dello stato generale. I carcinomi dei dotti biliari extraepatici si possono localizzare al coledoco, all’epatico comune, alla papilla ed al cistico. Tranne che in questa ultima evenienza, la sintomatologia è caratterizzata da ittero ingravescente, febbricola, epatomegalia, anoressia; ovviamente nella localizzazione dei cistico manca l’ittero.

 

VEDI ANCHE:
Il fegato: costituzione anatomica
Il fegato: le funzioni
Il fegato: la bile
Il fegato: esplorazione funzionale

Un rigraziamento speciale
all’ autore e redattore dell’ articolo: Enrico De Stefani

Il Fegato : esplorazione funzionale

Tutte le funzioni del fegato sopra ricordate sono state utilizzate per la messa a punto di diverse prove conosciute con il termine di funzionalità epatica.

Tra queste ricordiamo: la determinazione della bilirubinemia, l’elettroforesi delle proteine sieriche, le prove di labilità colloidale, lo studio dell’attività protrombinica, la determinazione di alcuni enzimi, la prova di carico con tetrabromosulfonftaleina, la prova di carico con alcuni zuccheri, la colesterolemia; a parte vanno considerate la biopsia epatica e la scintigrafia. Il dosaggio nel sangue della bilirubina esplora il metabolismo dei pigmenti biliari.

La bilirubinemia si divide in totale, diretta ed indiretta; normalmente il tasso di bilirubina totale oscilla tra 0,50 e 0,90 mg %, ed è rappresentata quasi esclusivamente dalla quota indiretta cioè della bilirubina non coniugata dal fegato.

I termini di diretta ed indiretta si riferiscono alle modalità di reazione del siero di sangue con il reattivo di diazonio (reazione di Van Den Bergh): la diretta reagisce con il sale dando un colorito roseo, l’indiretta reagisce dopo che il siero di sangue è stato trattato con alcool. Nel primo caso, vuoi dire che, se vi è aumento di bilirubinemia, questo è dovuto all’eccesso di bilirubina già coniugata con acido glicuronico nella cellula epatica, nel secondo caso, si tratta di un aumento di bilirubina non coniugata cioè libera. La capacità di metabolizzare da parte del fegato la bilirubina può essere studiata iniettando per via venosa una certa quantità di bilirubina allestita da un prodotto commerciale. Con l’elettroforesi delle proteine sieriche e le cosiddette prove di labilità colloidale, si esplora il metabolismo proteico; con questa indagine è inoltre possibile ottenere il frazionamento delle varie proteine del siero, facendole migrare su carta in un campo elettrico. Le proteine del siero hanno la seguente composizione percentuale: albumine 50%, globuline alfa1 7%, globuline alfa2 9%, globuline beta 14%, globuline gamma 20%. Poiché le albumine vengono sintetizzate dal fegato e le globuline in parte dal fegato ed in parte dai linfociti e plasmacellule, in particolar modo le gamma, ne deriva che nelle gravi malattie epatiche il quadro elettroforetico si modificherà nel senso di una diminuzione delle albumine, mentre si avrà un netto aumento delle gamma globuline, espressione di reazione mesenchimale ed aumentata sintesi di anticorpi. Pertanto le cosiddette prove di labilità colloidale risentono essenzialmente della composizione percentuale delle proteine sieriche. Ne deriva che queste prove non sono collegate specificamente alla funzionalità epatica, in quanto saranno positive in tutte quelle affezioni che comportano delle modificazioni del protidogramma, indipendentemente dallo stato della cellula epatica. Purtuttavia, rivestono sempre una certa importanza per il loro particolare comportamento nelle diverse affezioni del fegato. Le più comuni sono:

la reazione di Takata, quella di Gros, di Hanger, di Kunkel, di Weltmann, e di Wunderly-Wuhrmann. Maggiore importanza assume la determinazione del tempo di protrombina, che esplora la sintesi epatica della protrombina e dei fattori V, VII e X della coagulazione. Per la formazione di questi è anche indispensabile la presenza di vitamina K, che, come è stato ricordato sopra, promuove la trascrizione di un RNA messaggero specifico che trasporta l’informazione genetica al citoplasma dove dovrà avvenire la sintesi ·dei fattori della coagulazione e della protrombina. E’ chiaro che il mancato assorbimento di vitamina K, per ostacolato deflusso biliare nel duodeno, o una grave compromissione della cellula epatica, si ripercuoterà negativamente sullo svolgimento del normale processo di coagulazione, per deficienza della protrombina e dei fattori V, VII e X. E’ a conoscenza di tutti che il principale dato di laboratorio in corso di epatite virale, è rappresentato dall’aumento delle transaminasi nel siero di sangue. Sono questi degli enzimi che catalizzano alcuni processi di transaminazione che avvengono nella cellula epatica, nel miocardio ed in altri organi, mentre nel siero di sangue normalmente si trovano in modesta quantità (15-30 U W). L’aumento di questi enzimi nel siero sta a significare una necrosi cellulare e precisamente, nelle affezioni epatiche che si accompagnano a necrosi cellulare, aumenta essenzialmente la transaminasi glutammico-piruvica, mentre, in caso d’infarto cardiaco, si ha un prevalente aumento della glutammico-ossalacetica. Tra gli altri enzimi che assumono importanza nelle effezioni epatiche ricordiamo: la fosfatasi alcalina che aumenta notevolmente in caso di itteri ostruttivi; l’ornitin-carbamil transferasi che aumenta nella prima settimana dell’epatite virale, l’aldolasi, che ha un comportamento analogo all’enzima precedente e le esterasi, che diminuiscono nelle gravi epatopatie. La funzione escretrice del fegato viene esplorata per mezzo della prova da carico con bromosulfonftaleina. Questa sostanza, iniettata per via endovenosa, viene trasportata al fegato legata alle albumine, qui viene coniugata con il glutatione e la cisteina e successivamente viene eliminata con la bile. In un fegato normale entro 45 minuti dalla somministrazione, sarà quasi totalmente eliminata e nel sangue dei soggetti si trova una concentrazione della sostanza inferiore al 5% del totale. Questi valori sono aumentati in due casi: o per mancata escrezione del colorante o per ostacolo di penetrazione nella cellula epatica. Attualmente caduta in disuso, la prova di carico con alcuni zuccheri, e precisamente con il galattosio, veniva utilizzata per l’esplorazione del metabolismo glucidico. Normalmente il galattosio viene trasformato in glucosio dalla galatto-transferasi e, nel sangue, dopo un certo periodo di tempo, il contenuto in galattosio ritorna normale. Nelle epatopatie croniche, per la compromissione della capacità della conversione in glucosio, si ha un aumento della galattosemia e comparsa di galattosuria. Anche la determinazione della colesterolemia totale e frazionata può fornire ragguagli sullo stato funzionale del fegato, poiché il colesterolo viene sintetizzato nella cellula epatica a partire dall’acetil-coenzima A, e, successivamente, in parte esterificato con acidi grassi. Il colesterolo totale aumenta nei casi di ostacolo al deflusso biliare (itteri ostruttivi) e diminuisce nelle gravi affezioni del fegato, in cui pure si ha una riduzione del rapporto tra la parte esterificata ed il colesterolo totale. A queste comuni prove tendenti a mettere in evidenza lo stato funzionale dell’epatocita, si aggiungono altre due che in questi ultimi tempi hanno assunto notevole importanza e per mezzo delle quali è possibile venire a conoscenza della morfologia della cellula epatica in condizioni normali e patologiche. Si tratta della biopsia e della scintigrafia epatica. La biopsia si pratica con un particolare ago, è assolutamente priva di pericoli, e permette di esaminare al microscopio un preparato istologico ottenuto da un frustolo di tessuto epatico asportato. Anche la scintigrafia epatica si è dimostrata di notevole interesse ed è di facile attuazione. Si pratica iniettando endovena il rosso bengala marcato con J131, oppure l’oro colloidale marcato con Au198. Normalmente si ottiene una mappa epatica scintigrafica con una distribuzione uniforme della sostanza; nelle epatiti croniche, nelle cirrosi, nelle necrosi, si avranno delle immagini con eventuali lacune, disomogeneità di captazione ed altre deformità. Nelle cirrosi, oltre ad una scarsa ed irregolare captazione epatica, si avrà la distribuzione della sostanza radioattiva nel parenchima splenico. Ricordiamo infine che è possibile prendere visione diretta della superficie epatica, per mezzo della laparoscopia, che si attua mediante un particolare apparecchio ottico introdotto nella cavità addominale, attraverso una piccola incisione dei muscoli addominali. Quando il fegato non è capace di assolvere sia pure in parte alle sue varie funzioni, si manifestano quei quadri clinici conosciuti con il termine di insufficienza epatica. In base alla gravità si distinguono una piccola ed una grande insufficienza epatica; la piccola insufficienza epatica è sostenuta da una moderata riduzione dell’attività del fegato, ed è caratterizzata da: digestione laboriosa, flatulenza, sonnolenza post-prandiale, intolleranza a determinati cibi, specie ai grassi, fritti, particolare sensibilità agli alcolici; sovente cefalea, turbe dell’alvo che tende verso la stipsi, al mattino bocca impastata, periodi di astenia e di instabilità del carattere. Tutte queste manifestazioni, in linea di massima, sono transitorie, ma tendono sempre a ripresentarsi in occasione di disordini alimentari, eccessivi strapazzi, stress emotivi. La grande insufficienza epatica si osserva nella fase terminale di alcune epatopatie croniche, o anche in gravi epatiti acute, e molto frequentemente sfocia nel coma epatico. Dal punto di vista sintomatologico si distingue un primo stadio caratterizzato essenzialmente da eccitazione, ed un secondo in cui domina la depressione. Il primo periodo, o dell’eccitazione, è dominato dall’anoressia, astenia, stato confusionale, irritabilità, tremori prevalentemente localizzati agli arti superiori, tendenza alla rigidità muscolare. Questo primo stadio può essere reversibile, oppure in breve tempo può trapassare nel secondo stadio che si contrappone al primo per lo stato simil soporoso del paziente. Questo è assente, ma risponde, sia pure in modo vago, se viene interrogato, l’alito è sgradevole (foetor hepaticus), i tremori muscolari sono accentuati, la cute è secca, le mucose visibili sono ricoperte da crosticine ematiche per piccole emorragie; gradatamente la situazione precipita sfociando nel coma. L’ammalato è in pieno stato soporoso, non reagisce agli stimoli, le pupille sono dilatate, compie dei movimenti incoordinati ed afinalistici, nella fase terminale interviene il collasso cardio-circolatono e l’exitus. In certi casi, con idonea terapia, il coma epatico può regredire, come per esempio quando sia provocato da tossici di origine intestinale; in altri, laddove esiste una grave sofferenza epato-cellulare, si conclude con la morte. Il fegato come tutti gli altri organi può andare incontro: ad alterazioni del circolo sanguigno, a fenomeni degenerativi, necrotici ed atrofici, a fenomeni infiammatori acuti e cronici, a fenomeni di sclerosi che in questo organo assumono degli aspetti peculiari, a neoformazioni di natura benigna e maligna, I disturbi di circolo possono essere sostenuti da una stasi venosa acuta o cronica, o da uno stato d’ipertensione portale. La stasi venosa è sempre conseguenza di una insufficienza cardio-circolatoria di tipo destro per gravi affezioni cardiache, o cardio-polmonari o per pericardite adesiva. Nella forma acuta, il fegato si presenta aumentato di volume, con margini arrotondati e capsula tesa; la superficie di taglio è di colorito cianotico, con disegno lobulare accentuato le cui zone centrali sono depresse, di colorito rosso, circondate da alone più chiaro. Istologicamente spicca la dilatazione delle vene sottolobulari e centrolobulari. Nella stasi cronica, l’organo è ridotto di volume, con capsula ispessita e margini assottigliati. Alla superficie di taglio, si osserva il quadro cosiddetto di fegato a noce moscata, per l’alternarsi di zone rosso scuro con zone di colorito giallastro. Dal punto di vista microscopico si nota una dilatazione delle vene centrolobulari in prossimità delle quali mancano le cellule epatiche, mentre quelle limitrofe presentano infiltrazione grassa. Nei gradi estremi, la parte periferica dei lobuli viene ad essere circondata da tralci fibrosi. La sintomatologia è quella della affezione fondamentale che ha causato la stasi. I disturbi di circolo conseguenti ad ipertensione portale, col tempo, portano alla cirrosi epatica di cui si dirà in seguito.

Tessuto epatico al microscopio. Notare la forma grossolanamente esagonale delle cellule. A destra una cellula epatica nel dettaglio.

 

VEDI ANCHE:
Il fegato: costituzione anatomica
Il fegato: le funzioni
Il fegato: la bile
Il fegato: fenomeni degenerativi

 

Un rigraziamento speciale
all’ autore e redattore dell’ articolo: Enrico De Stefani

Quando la forza diventa inarrestabile!

Ebbene si, la forza di Bodytraining.it nel portare avanti il suo progetto non trova barriere che riescano ad arrestarla ed anche oggi vi annunciamo con grande piacere che lo Staff ha un nuovo membro:

l’ avv. Alberto Giordano, esperto di diritto civile e penale, nonché profondo conoscitore del diritto sportivo e di tutte le tematiche giuridiche relative all’esercizio della pratica sportiva.

Bodytraining.it è il primo network che propone nel web la giurisprudenza legata allo sport in termini così qualificati.

L’ avv. Alberto Giordano ci spiegherà, in ogni piccola sfaccettatura, tutto quello che giuridicamente è sport. Indispensabile sarà, dunque, il suo aiuto per farci comprendere come la legge si muove attraverso l’ attività fisica.

Siamo sicuri che in Bodytraining.it troverete interessanti tematiche che, grazie all’avv. Alberto Giordano,  approfondiremo e discuteremo per dare luce anche a questo lato sportivo molto spesso trascurato, ma che, in diversi ambiti, necessita delle dovute considerazioni.

Solo in Bodytraining.it potrete trovare le risposte ai vostri dubbi!

Profili penalistici del doping sportivo (prima parte)

Il fenomeno del doping sportivo, inteso come comportamento legato all’assunzione, somministrazione di sostanze farmacologicamente attive e alla sottoposizione a pratiche mediche, dirette ad incrementare le prestazioni sportive e ad alterare artificialmente il risultato della gara, presenta aspetti di rilevanza giuridica sia in ambito di legislazione statale che di ordinamento sportivo.

Mentre l’ordinamento sportivo reprime e sanziona tali comportamenti nell’ottica di assicurare il leale e corretto svolgimento delle gare e di garantire il rispetto di principi morali che dovrebbero presiedere alla pratica sportiva, l’ordinamento giuridico-statale prevede sanzioni anche di carattere penale al fine di tutelare precipuamente il bene giuridico della salute pubblica, nel duplice aspetto individuale e collettivo oltre a voler salvaguardare il principio della lealtà sportiva.

Ci occupiamo qui brevemente della disciplina legislativa di carattere penale che prevede fattispecie di reato connotate dalle condotte dianzi descritte e che predispone misure sanzionatorie dirette a reprimere tali fenomeni.

E’ per effetto dell’introduzione della Legge 376/2000 denominata “ Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping”, che viene istituita il reato di doping.

E’ la stessa legge che definisce il doping come condotta diretta ad un’attività di somministrazione o assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive ( doping c.d. farmacologico) e nella adozione o sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche, idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti,cui è equiparato l’uso di metodi o pratiche sostanzialmente in grado di alterare, modificandola, l’integrità o validità dei risultati dei controlli sull’uso dei farmaci,delle sostanze e delle pratiche.

La normativa di specie si caratterizza per l’impiego di un meccanismo di specificazione” tecnica”delle sostanze vietate da operarsi attraverso il riferimento a normative di carattere secondario che ha lo scopo di rendere effettiva la risposta penale in settori caratterizzati da un elevato tecnicismo e condizionati dal grado dell’evoluzione scientifica. Il Legislatore ha pertanto posto, nella materia che ci occupa, delle norme penali in bianco che presuppongono un’integrazione normativa a carico del potere esecutivo mediante l’introduzione di decreti ministeriali che devono specificare e fissare le classi di sostanze e metodi dopanti .

La particolare tipologia delle norme penali in bianco dirette a disciplinare la materia del doping, che necessitano di fonti di eterointegrazione del precetto penale, ha prodotto un orientamento giurisprudenziale incerto circa la reale operatività della norma penale in assenza del decreto ministeriale di ripartizione in classi.

Il contrasto giurisprudenziale è stato sanato dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione che si è pronunciata affermando la configurabilità dei delitti di doping anche in relazione ai fatti antecedenti l’emanazione del decreto ministeriale, rendendo applicabile la legge anche in relazione a condotte che abbiano come riferimento farmaci, sostanze e pratiche mediche non risultanti all’interno dei decreti.

In definitiva si esclude la tassatività dell’elencazione stante il carattere di criteri –guida attribuito alle classificazioni operate dalle fonti internazionali, finendo col riferire la locuzione “dopante”, a tutte quelle sostanze affini,per struttura clinica ed effetti farmacologici,coerentemente alla ratio di tutela sottesa alla previsione legislativa.

Data la complessità dell’argomento trattato e le innumerevoli conseguenze pratiche che ne derivano, si rinvia alla prossima occasione per un’analisi dei profili sanzionatori e degli elementi soggettivo ed oggettivo del reato di doping, nonché per una serena disamina sul piano della funzione general-preventiva che la normativa di specie avrebbe lo scopo di perseguire anche alla luce dell’evoluzione della società in termini di rispetto delle regole e della erronea percezione sempre più diffusa tra i giovani sportivi di dover prevalere sull’avversario ad ogni costo, altresì enfatizzata, tale percezione, da suggerimenti esterni interessati e spesso dannosi per l’integrità psicofisica dell’atleta che si sta costruendo.

 

VEDI ANCHE:

Profili penalistici del doping sportivo (seconda parte)

 

Avv. Alberto Giordano
esperto in diritto civile e penale

L’ energia nei sistemi biologici e la caloria-Kilocaloria come unità di misura

Le trasformazioni che avvengono nell’organismo umano sono finalizzate alla produzione di energia necessaria per tutti i processi vitali.

Grazie agli alimenti il nostro organismo ricava l’ energia necessaria alla vita e alle sue funzioni tramite i processi di ossidazione o, semplicemente, di “combustione”, che avvengono all’interno del nostro corpo alla temperatura di 37°, sviluppando lentamente energia.

L’energia ricavata dalla combustione degli alimenti si trasforma in:

– lavoro esterno

– calore

– riserve energetiche

Tutte funzioni necessarie alla vita quotidiana.

In un sistema biologico possiamo definire l’energia come una grandezza che può essere trasformata in lavoro. Questa trasformazione viene ricondotta alle attività vitali e al lavoro meccanico che un essere umano può eseguire. La misurazione di queste trasformazioni (Metabolismo Energetico) avviene tramite due unità di misura : la caloria e la Kilocaloria

Caloria (cal)

Fisicamente definiamo caloria la quantità di calore necessaria per innalzare di 1°C la temperatura di 1 kg di acqua, da 14,5° a 15,5° in condizioni standard.

Nel sistema biologico la caloria è la quantità di energia che utilizziamo bruciando le sostanze alimentari in presenza di ossigeno.

Possiamo misurarne l’energia derivata grazie all’utilizzo di un calorimetro

Kilocaloria (Kcal)

Non è nient’ altro che un multiplo della caloria; 1 Kcaloria, infatti, corrisponde a 1000 calorie.

Questo multiplo viene utilizzato prevalentemente in ambito nutrizionale per definire le kcalorie derivate dalla combustione delle proteine, dei carboidrati e dei grassi.

1g di protidi fornisce 4 Kilocalorie

1g di glucidi fornisce 4 Kilocalorie

1g di lipidi fornisce 9 Kilocalorie

Mentre i carboidrati ed i grassi vengono a livello metabolico completamente bruciati, i protidi no, perché necessitano di un’ulteriore operazione di smaltimento del residuo di scorie, derivate dalla loro metabolizzazione/scomposizione. Si può verificare, tramite misure spirometriche, in quali proporzioni vengono utilizzate dall’organismo umano i tre macronutrienti principali (proteine, carboidrati, grassi). La verifica di tale operazione prende il nome di QR (quoziente respiratorio) che indica il rapporto tra la CO2 prodotta e l’O2 consumato nell’unità di tempo. L’ importanza di tale misurazione consiste nel fatto che gli alimenti che bruciano in presenza di ossigeno liberano energia formando CO2, H2O e, a seconda del macronutriente utilizzato, eventuali scorie.

Il quoziente respiratorio dei carboidrati è 1
Il quoziente respiratorio dei grassi è 0,7
Il quoziente respiratorio delle proteine è 0,82, chiaramente per le proteine il rapporto è approssimativo, poiché bisognerebbe valutare la quantità di scorie azotate eliminate dalle urine.

Come si può capire, il QR può diventare veramente efficace nella verifica metabolica e del consumo dei singoli macronutrienti poiché, grazie alla spirometria, possiamo apprendere in che rapporto consumiamo proteine, grassi e carboidrati in diverse situazioni indotte, come, ad esempio, mentre ci alleniamo o quando riposiamo.