Profili penalistici del doping sportivo (seconda parte)

I profili sanzionatori che mirano a colpire la somministrazione ma anche l’assunzione di sostanze ricomprese nella classificazione di quelle dopanti, sono introdotti dall’art .9 della Legge 376/2000,che prevede che sia comminata la pena da 3 mesi a 3 anni con la multa da € 2.582 a € 51.645 per chiunque somministra,

procura, assume o comunque favorisce l’utilizzo di sostanze farmacologicamente o biologicamente attive non consentite o comunque vietate rientranti nella ripartizione in classi operata dal Ministero della sanità d’intesa con quello per i Beni e le Attività culturali, su proposta della Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive.

L’individuazione delle pratiche e delle sostanze considerate dopanti oggetto del divieto penale,avviene peraltro anche nel rispetto delle disposizioni della Convenzione di Strasburgo, delle indicazioni del CIO e degli organismi internazionali preposti al settore sportivo.

Il comma 3 dello stesso art. 9 prevede un aumento della pena se dal fatto è derivato un danno per la salute, ovvero se il fatto è commesso nei confronti di un minorenne o infine se il fatto è commesso da un componente o dipendente del Coni o di una Federazione sportiva nazionale,di una società,di un’ associazione o di un ente riconosciuti dal Coni.

Alla luce della sintetica ricostruzione della normativa fondamentale in tema di doping di cui alla Legge 376/2000, occorre fare alcune considerazioni.

In primo luogo questa normativa si riferisce agli atleti professionisti non includendo i dilettanti e gli amatoriali e difetta inoltre di sanzionare penalmente gli atleti che si rifiutano di sottoporsi al test antidoping, comportamento punito esclusivamente sul piano dell’ordinamento sportivo.

Queste 2 omissioni costituiscono indubbiamente delle lacune presenti nella legge che peraltro possono essere agevolmente colmate con l’introduzione di norme ad hoc dirette ad integrare la normativa di specie a cui si deve comunque riconoscere carattere innovativo, preventivo e dissuasivo rispetto a pratiche illecite sempre più diffuse nel mondo dello sport professionistico.

Per quel che attiene all’elemento soggettivo del reato, esso è verosimilmente configurabile, quasi esclusivamente, ove sia ravvisabile una condotta cosciente e volontaria e dunque dolosa di somministrare o assumere sostanze dopanti che alterino le prestazioni sportive dell’atleta. Più difficile ipotizzare una condotta che integri una violazione solamente colposa del precetto penale introdotto dalla Legge n. 376/2000.

Infine vorrei concludere con una considerazione di carattere più sociologico che giuridico.

L’ applicazione, ma anche e soprattutto la reale efficacia di questa normativa è a mio modesto parere subordinata alla trasmissione da parte di coloro che sono preposti all’educazione in senso lato, i genitori, e a quella sportiva in particolare, gli istruttori,gli allenatori, di valori positivi, basati in primo luogo sulla correttezza e lealtà sportiva nonché sull’idea di preservare innanzitutto la salute degli atleti,che costituisce un bene talmente prezioso da rendere sconsiderato perché altamente dannoso l’utilizzo di pratiche farmacologiche dirette ad incrementare le prestazioni sportive.

Ecco, da qui l’esigenza e l’auspicio che l’applicazione della legge sul doping sia estesa anche agli atleti amatoriali, che frequentano abitualmente le palestra con lo scopo di prevenire,disincentivare e punire traffici di sostanze illecite che avvengono in alcuni centri sportivi con grave danno per gli assuntori delle stesse, che spesso ignorano l’entità delle conseguenze che ne possano derivare per il proprio stato di salute psicofisica.

 

VEDI ANCHE:

Profili penalistici del doping sportivo (prima parte)

Avv. Alberto Giordano
esperto in diritto civile e penale

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (seconda parte)

FATTORI PRERECETTORIALI, RECETTORIALI (GENETICI) E POSTRECETTORIALI (INTRACELLULARI) NELLO SVILUPPO DELL’ INSULINO RESISTENZA (Zierath 2000)

Lo stato di insulina resistenza si determina da una profonda disregolazione delle azioni metaboliche intracellulari dell’insulina nei tessuti insulino dipendenti (stimolazione della glicogenosintesi, lipogenesi e proteino sintesi, inibizione della lipolisi, glicogenolisi, proteolisi, ecc).

L’insulino resistenza è una condizione tipica nello sviluppo del diabete tipo 2, così come nell’obesità e in altre condizioni patologiche.

In essa possiamo distinguere fattori prerecettoriali, recettoriali (difetti genetici) e postrecettoriali (intracellulari) in grado di determinare lo sviluppo di insulino sensibilità. L’insulino resistenza nell’obesità e nel diabete tipo 2 è caratterizzata da difetti a molti livelli in cui è possibile constatare una diminuita concentrazione dei recettori insulinici e della loro rispettiva attività chinasica, una diminuita concentrazione e fosforilazione degli IRSs, una diminuzione dell’attività della PI 3-Kinasi, una diminuita traslocazione delle proteine GLUT4 coinvolte nel trasporto del glucosio, una diminuita attività degli enzimi intracellulari, ecc. Nei soggetti allenati si osserva una riduzione della secrezione di insulina che è espressione di una maggiore sensibilità dei tessuti all’ormone e quindi, in termini pratici significa minor probabilità di sviluppare uno stato di insulino resistenza.

Fattori prerecettoriali
TNF alfa (Steensberg 2001, Saltiel 2001)

Serve a limitare l’espansione della massa adiposa. E’ prodotto dagli adipociti e dalle cellule infiammatorie e svolge un ruolo importante nell’insorgenza dell’insulino resistenza e dell’aterogenesi. La sua produzione è inibita dall’interleukina 6 (IL-6), che è una citochina prodotta in corso di esercizio dai muscoli coinvolti nella contrazione in quantità correlata all’intensità e alla durata dello sforzo e dal livello endomuscolare di glicogeno. Bassi livelli di glicogeno favoriscono la produzione di IL-6 che ha diversi effetti: a livello del tessuto adiposo favorisce la lipolisi dei trigliceridi e inibisce la produzione di TNF alfa che ha un ruolo patogenetico nell’insorgenza dello stato di insulino resistenza e a livello epatico favorisce la glicogenolisi. La sintesi di TNF alfa è aumentata negli adipociti dei soggetti obesi ed è il responsabile della fosforilazione della serina degli IRS-1, determinando in questo modo una riduzione dell’attività dei recettori tirosina-chinasici e quindi dello stato di insulino resistenza. Nei roditori, reagenti anti TNF alfa migliorano significativamente l’insulino resistenza; nell’uomo alcuni limitati studi hanno invece documentato che questo meccanismo non produce nessun o scarsi effetti sull’insulino resistenza. Il TNF alfa aumenta inoltre la degradazione delle sfingomieline la cui concentrazione risulta correlata positivamente con l’obesità.

Adiponectina (Acrp30) (Berg 2001, Saltiel 2001)

Sono stati identificati un cospicuo numero di fattori coinvolti nel metabolismo energetico che sono espressi esclusivamente o in forma predominante e rilasciati dal tessuto adiposo. L’Acrp30 è uno di questi fattori che risulta coinvolto nel controllo sistemico dell’insulino sensibilità ed è costituito da una proteina di 247 aminoacidi. Recentemente è stato osservato che elevando farmacologicamente i livelli di Acrp30 si determina un transitorio abbassamento dei livelli glicemici, mentre nei soggetti obesi e diabetici di tipo 2 sono stati evidenziati bassi livelli plasmatici di adiponectina indicando in questo modo una correlazione con l’insulino resistenza. Questo effetto viene principalmente ottenuto attraverso una riduzione del rilascio del glucosio da parte del fegato in conseguenza di una migliorata insulino sensibilità. In laboratorio sono stati prodotti modelli che si basano su roditori che esprimono elevati livelli di Acrp30 tre o quattro volte superiori ai livelli normali che risultano caratterizzati da una notevole sensibilità dei recettori insulinici, da un diminuito livello plasmatico degli FFAs, da una ridotta quantità di trigliceridi nei muscoli e nel fegato e da una aumentata espressione dei geni coinvolti nell’ossidazione degli acidi grassi e nella spesa energetica. Questi tipo di studi dimostrano il coinvolgimento diretto e indiretto dell’Acrp30 nel metabolismo dei carboidrati e dei lipidi e quindi sulla sensibilità insulinica. Per quanta riguarda gli effetti dell’esercizio fisico non accompagnato a riduzione di peso non sono state osservate modificazioni significative dei livelli plasmatici di adiponectina in contraddizione con un paio di abstracts presentati a San Francisco (USA) nella Diabetes Conference 2002 in cui invece si mette in evidenza che l’attività fisica determina un incremento di questa proteina.

Obesità (Khan 2000, Booth 2002)

Un soggetto viene considerato obeso quanto il suo peso corporeo supera del 20% rispetto a quello raccomandato per una data altezza. L’obesità consiste in una espansione della massa adiposa oltre i limiti fisiologici causando, molto spesso (80% dei casi), uno stato di insulino resistenza i cui meccanismi non sono ancora ben chiari. La prevalenza di diabete è circa tre volte maggiore nelle persone obese. L’insulino resistenza è la conseguente iperinsulinemia, oltre ad essere causate dall’obesità, possono contribuire esse stesse allo sviluppo eccessivo della massa adiposa. La funzione degli adipociti può essere considerata anche come ghiandola endocrina, con ampi effetti in altri organi incluso il cervello. Il rilascio di una notevole quantità di molecole che includono ormoni quali la leptina, le citochine come il TNF alfa, e i substrati quali gli FFA permettono al tessuto adiposo di avere un ruolo fondamentale nel bilancio energetico dell’organismo e nell’omeostasi glucidica. Le sfingomieline (ceramide) risultano positivamente correlate all’obesità. L’adiponectina (acrp30) è un fattore rilasciato dal tessuto adiposo che ha un’importante funzione nel metabolismo energetico ed è coinvolta nel controllo della sensibilità sistemica dell’insulina. Un aumento farmacologico di questo fattore ha dimostrato un ridotto livello glicemico da diminuito rilascio epatico di glucosio in conseguenza della migliorata sensibilità all’insulina. L’ossidazione degli FFA non solo provvede a fornire energia ai tessuti, ma implica anche una ridotta utilizzazione del glucosio. Questo effetto regolatore degli FFA è conosciuto come ciclo glucosio-acidi grassi. L’obesità può essere parzialmente spiegata come iperfagia e ridotta attività fisica che determinano un bilancio energetico positivo con deposito di energia chimica sotto forma di trigliceridi nell’organismo. Il tessuto adiposo è l’organo più importante per il deposito dei lipidi. Miglioramenti metabolici associati ad una riduzione della massa adiposa includono dei cambiamenti riguardanti il metabolismo dei carboidrati e dei lipidi che possono ridurre il rischio di sviluppare malattie quali il diabete e le patologie cardiovascolari generalmente associate ad una obesità distrettuale localizza a livello dell’addome (obesità viscerale). L’obesità viscerale in particolare interagisce con l’inattività fisica incrementando in questo modo il rischio di malattia coronarica e di diabete tipo 2, che è un altro fattore di rischio indipendente di malattia delle coronarie. Secondo alcuni recenti studi, l’obesità si associa ad un peggioramento del sistema di trasferimento interno del segnale insulinico determinando nell’adipocita una diminuita attività del trasduttore IRS-1, che contribuisce ovviamente allo sviluppo di insulino resistenza. Da sottolineare un paradosso molto importante. Sia l’eccesso che l’assenza di tessuto adiposo causano insulino resistenza mettendo in evidenza la complessità di questa correlazione. Il tessuto adiposo, considerato oggi come un organo endocrino, svolge funzioni complesse (vedi es. secrezione della leptina ed effetti multipli da essa prodotti, ecc.). Conoscenze scientifiche prodotte nell’ultimo decennio hanno evidenziato importanti aspetti biologici degli adipociti che come ghiandola endocrina finiscono per produrre i loro effetti in altri organi, in particolare a livello del sistema nervoso centrale. Il rilascio di una varietà di sostanze quali la leptina, il TNF alfa e substrati quali gli FFAs permettono al tessuto adiposo di svolgere un ruolo importante nell’omeostasi del glucosio e nel bilancio energetico del soggetto. Nella opulenta società moderna, l’obesità ha raggiunto proporzioni epidemiche per cui si rende necessario, ai fini della prevenzione delle patologie ad essa associate, spostare l’equazione relativa all’assunzione ed utilizzazione energetica verso una ridotta scorta lipidica offrendo in questo una grande opportunità di modificare positivamente il decorso della patologia umana. In corso di esercizio fisico, specialmente di bassa o moderata intensità il tessuto adiposo provvede a fornire una parte considerevole di substrati al muscolo scheletrico (30-90%). Durante l’attività fisica di moderata intensità la lipolisi nel tessuto adiposo aumenta di due o tre volte rispetto al valore basale. Inoltre, la percentuale di acidi grassi riesterificati nel tessuto adiposo diminuisce e conseguentemente un’aumentata quantità di acidi grassi vengono forniti ai muscoli in attività. I principali stimolatori della lipolisi in corso di esercizio fisico sono costituiti da un aumento dell’attività del sistema nervoso simpatico adrenergico e da una diminuzione della concentrazione di insulina. Alcuni studi inoltre dimostrano che la sensibilità del tessuto adiposo alla risposta adrenergica aumenta nel corso di una singola seduta di esercizio fisico. I soggetti allenati, in corso di esercizio, ossidano una maggiore quantità di acidi grassi rispetti ai soggetti sedentari. Gli effetti dell’allenamento sull’attività dell’enzima lipasi ormono sensibile (HSL), che costituisce il fattore limitante nella lipolisi, ha effetti contrastanti in quanto sono stati evidenziati aspetti che determinano un aumento e una diminuzione di attività. Studi scientifici documentano che la lipolisi nel tessuto adiposo da soppressione insulinica è più sensibile nei soggetti allenati rispetto ai sedentari. Gli FFAs sono prodotti durante la lipolisi dei trigliceridi in molti tessuti e fino a tempi recenti non è stato possibile valutare direttamente in corso di esercizio fisico il ruolo relativo dei vari depositi. La quantità delle scorte del tessuto adiposo intraddominale si correla direttamente con l’insulino resistenza ed è considerata un fattore importante nello sviluppo del diabete tipo 2, dell’iperlipemia e dell’ipertensione arteriosa. L’ossidazione generale degli acidi grassi aumenta in risposta all’esercizio e raggiunge il suo picco massimo a circa il 60% della VO2 max. Inoltre, l’ossidazione lipidica aumenta con la durata dell’esercizio caratterizzato da moderata intensità. L’esercizio incrementa lipolisi sia nel tessuto adiposo sia nei muscoli coinvolti nella contrazione, mentre gli FFA plasmatici derivanti dai trigliceridi contribuiscono nel periodo postprandiale solo molto parzialmente al metabolismo dell’esercizio.

Leptina (Zaccaria 2002; Gabriely 2002, Nindl 2002, Saltiel 2001)

La concentrazione serica di leptina è ridotta in presenza di un bilancio energetico negativo. La leptina è una proteina scoperta nel 1994 che è espressa e prodotta dal tessuto adiposo ed ha la funzione di controllare l’assunzione degli alimenti mediante l’attivazione di segnali di sazietà a livello ipotalamico (neuropeptide Y), che è il centro di controllo dell’appetito nel cervello. In condizione di equilibrio energetico la leptina è considerata un buon indice della quantità di grasso depositata nell’organismo, mentre in condizioni di sbilancio la leptina non può più essere considerata un marker fedele della quantità di energia chimica di tipo lipidico presente in un determinato soggetto. Infatti, nel digiuno prolungato caratterizzato da un bilancio energetico negativo la concentrazione di leptina è diminuita, mentre nella sovralimentazione in cui si determina un bilancio energetico positivo il livello di leptina è aumentato. Solo l’esercizio fisico estremo che determina un elevato dispendio energetico è in grado di ridurre la concentrazione di leptina. I risultati contradditori sulle risposte della leptina ai vari tipi di esercizi potrebbero essere spiegati sulla base delle differenti procedure sperimentali (es. protocolli di esercizi, dieta prima e durante esercizio fisico, ritmi circadiani). Il digiuno prolungato provoca una caduta della leptina a partire dalla 12a ora. La somministrazione cronica di leptina fa diminuire l’assunzione di cibo determinando conseguentemente una riduzione della massa adiposa in particolare a livello viscerale, con un parallelo significativo miglioramento dell’azione dell’insulina a livello epatico e periferico. La leptina dal p.v. molecolare è un peptide di 16-K prodotto dagli adipociti che può modulare molte alterazioni metaboliche associate ai processi di invecchiamento (obesità, cambiamento della distribuzione adiposa, insulino resistenza). La somministrazione cronica di leptina fa diluire l’assunzione cibo e induce una riduzione della massa adiposa a livello viscerale con un parallelo significativo incremento dell’azione epatica e periferica dell’insulina. Le azioni principali della leptina riguardano il controllo dell’assunzione alimentare, la massa adiposa e la sua espressione genica a livello degli adipociti. La leptina comunica lo stato delle scorte energetiche dell’organismo al SNC. L’invecchiamento e l’obesità determinano uno stato di leptino resistenza con conseguente aumento del livello plasmatico della leptina stessa. I soggetti obesi presentano alte concentrazioni di leptina nel tentativo di ridurre l’introduzione calorica alimentare e di aumentare la termogenesi, entrambi meccanismi fisiologici di rimozione dell’energia chimica. La leptina funziona non solo come segnale di sazietà e di soppressione dell’appetito, ma anche tramite i suoi recettori presenti nelle cellule e nei vasi di recente formazione interviene nel modulare l’attività immunologia ed emodinamica. Con l’invecchiamento aumentano i livelli plasmatici di leptina che determinano uno stato di resistenza all’azione della stessa leptina e possono spiegare perché le persone anziane presentano un’obesità di tipo addominale accompagnata spesso da insulino resistenza.

Amilina (Kraemer 2002)

L’amilina è un ormone polipeptidico di 37 aminoacidi cosecreto con l’insulina dalle cellule beta pancreatiche delle Isole del Langherhans in risposta agli stimoli alimentari. Esercita la sua azione sul controllo glicemico post prandiale essenzialmente traimite i seguenti meccanismi:

a) soppressione della secrezione di glucagone che è uno dei più potenti stimoli della glicogenesi a livello epatico;

b) modulazione della disponibilità dei nutrienti nel transito stomaco-duodeno;

c) riduzione di assunzione di cibo mediante stimolazione dei rispettivi recettori ad alta densità localizzati nel SNC la cui stimolazione è in grado di anticipare il senso di sazietà e quindi di limitare l’assunzione di cibo e la relativa introduzione calorica. Nei pazienti diabetici tipo 2 il deficit parziale di amilina, che tende ad accumularsi al di fuori della cellula beta assumendo le caratteristiche tintoriali dell’amilodie, contribuisce a determinare uno sbilanciamento glicemico dovuto ad un alterato rapporto fra entrata ed uscita di glucosio. Protocolli di esercizio fisico intermittente di moderata e media intensità hanno dimostrato degli importanti aumenti plasmatici di amilina.

Bilancio energetico (Khan 2000)

Ci sono evidenze scientifiche che incriminano il bilancio energetico positivo derivante da un eccesso di assunzione calorica alimentare oppure da un ridotto dispendio energetico da inattività quale fattore centrale nello sviluppo dell’insulino resistenza e nella patogenesi di molte altre malattie metaboliche. Con l’invecchiamento si verifica una graduale riduzione del metabolismo basale, non accompagnato molto spesso da una proporzionale riduzione dell’assunzione dei nutrienti alimentari. Il tessuto adiposo, considerato oggi come un organo endocrino, riveste un ruolo fondamentale in grado di dire che cosa fare ad altri organi che si occupano di accumulare energia. L’effetto dell’allenamento nel mantenimento di un equilibrato bilancio energetico è un importante aspetto nella prevenzione del diabete tipo 2, così come di altri tipi di patologie.

SFFA (Shulman 2000, Saltiel 2001, Sihna 2002)

Gli FFA sono mobilizzati dal tessuto adiposo e vengono ossidati dal muscolo e dagli altri tessuti dell’organismo.Viaggiano nel plasma trasportati dall’albumina la cui concentrazione esercita un ruolo parziale nel controllo dell’ossidazione lipidica nel muscolo. Non solo, l’ossidazione degli FFA esercita entro determinate condizioni anche un controllo sul tasso di utilizzazione ed ossidazione del glucosio. Il ciclo glucosio-acidi grassi ha quindi un ruolo nell’insulino resistenza e nel disturbo metabolico ad esso associato. L’ossidazione degli FFA può inibire l’utilizzazione del glucosio e del glicogeno. L’allenamento determina la capacità di indurre una aumentata rimozione dei TG dal circolo. Una notevole percentuale dei grassi ossidati durante l’esercizio è di provenienza intramuscolare. Molti dei rimanenti grassi ossidati provengono dagli FFA originati dal tessuto adiposo. Ci sono molte evidenze scientifiche nelle quali si dimostra che gli FFA vengono captati dal muscolo tramite la mediazione di uno specifico sistema di trasporto. A causa della scarsa solubilità, il 99% degli FFA si trova nel plasma legato all’albumina che manifesta un’alta affinità per questo tipo di lipide. In condizioni di iperlipemia un’alta percentuale del flusso totale di FFA avviene tramite la via della diffusione passiva. La sostituzione alimentare degli acidi grassi saturi con gli insaturi determina un minore accumulo di tessuto adiposo a livello addominale e conseguentemente migliora l’insulina sensibilità. Quando gli acidi grassi nei muscoli e nel fegato non sono sufficientemente utilizzati, il loro accumulo non solo impedisce all’organismo di consumare calorie ma può portare all’insulino resistenza, che aumenta il rischio di sviluppare diabete. Elevati livelli di FFA sono caratteristiche di obesità, insulino resistenza e diabete tipo 2. L’insulino resistenza è uno dei maggiori fattori nella patogenesi del diabete tipo 2 e recenti studi hanno dimostrato una forte correlazione fra l’aumento della concentrazione plasmatica degli acidi grassi e molti stati di insulino resistenza, fra cui il diabete tipo 2 e l’obesità. E’ stata osservato, anche a digiuno, una correlazione inversa fra concentrazione degli acidi grassi e insulino sensibilità, supportanto l’ipotesi che un alterato metabolismo lipidico può contribuire a determinare un ulteriore stato di insulino resistenza nei pazienti diabetici. Inoltre, alcuni recenti studi effettuati tramite biopsia muscolare o tramite NMR hanno dimostrato una forte correlazione fra accumulo intracitoplasmatico di trigliceridi nella cellula muscolare e insulino resistenza. Sembra che il meccanismo tramite il quale gli FFA inducono insulino resistenza sia costituito da una maggiore proporzione di acidi grassi saturi dei fosfolipidi di membrana e dalla quantità e saturazione degli acidi grassi intramiocellulari. Infatti, gli acidi grassi saturi, quali l’acido palmitico, specificatamente inibiscono l’attivazione della PKB e conseguentemente anche la captazione cellulare del glucosio mediata dall’insulina e la capacità di sintesi del glicogeno. L’attività fisica determina l’attivazione del catabolismo generale inducendo quindi un incremento della lipolisi nono solo nel tessuto adiposo ma anche a livello muscolare. Per un certo periodo di tempo si è pensato che il principale meccanismo coinvolto nella lipolisi intramuscoalre fosse determinato dalla lipoproteina lipasi intracellulare. Comunque, questo enzima è sintetizzato come una proteina secretoria e non ha un appropriato ottimo pH. Queste caratteristiche non sono applicabili alla lipasi ormono sensibile del tessuto adiposo, che recentemente è stata trovata anche nel muscolo. La lipasi ormono sensibile nel muscolo può essere simultaneamente fosforilata e attivata dalla proteina kinasi cAMP dipendente. La degradazione dei trigliceridi e del glicogeno nel muscolo può essere regolata da enzimi, rispettivamente lipasi ormono sensibile e glicogeno fosforilasi, che sono attivati in parallelo e sotto il duplice controllo del calcio e degli ormoni. Ci sono infatti evidenze scientifiche che dimostrano l’attivazione simultanea, nel muscolo, della lipoproteina lipasi (LPL) e della lipasi ormono sensibile. La cellula adiposa è importante nella regolazione metabolica generale quanto rilasciando gli FFAs riduce la captazione del glucosio da parte del muscolo, la secrezione insulinica delle cellule beta e aumenta il rilascio ematico del glucosio da parte del fegato. La cellula adiposa secerne anche le “adipokine” quali ad esempio la leptina, l’adiponectina e il TNF, che regolano l’assunzione di cibo, la spesa energetica e l’insulino sensibilità.

VEDI ANCHE:

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (prima parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (terza parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (quarta parte)


Laurea in Scienze Motorie

Tesi di laurea: Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari
Relatore: Ch.mo Prof. Federico Schena
Laureando: Ginetto Bovo
Anno accademico 2001-2002

Ginetto Bovo
Dr. in scienze motorie, docente di educazione fisica

Le gambe e l’allenamento “Cybergenics”

Capita spesso di vedere uno squilibrio tra gli arti superiori e quelli inferiori e naturalmente risulta sempre meno sviluppata la parte inferiore.

Il problema è che le gambe crescono molto più lentamente degli arti superiori, e proprio per questo a volte si allenano male o non si allenano del tutto, tanto si pensa che con un paio di pantaloni si possa nascondere la disarmonia …..ma se vogliamo creare un equilibrio muscolare nel nostro corpo dobbiamo dedicarci anche alle gambe nonostante la loro lentezza nel reagire agli stimoli allenanti.

Il quadricipite è il più spesso di tutti i muscoli presenti nel corpo umano. Occupa tutta la parte anteriore della coscia, è suddiviso in quattro fasci muscolari denominati: vasto laterale, vasto mediale, vasto intermedio e retto femorale e si estende dall’articolazione dell’anca a quella del ginocchio. Lo sviluppo di questo muscolo comporta molta fatica, basta pensare allo sforzo fatto per sviluppare i bicipiti e moltiplicarlo per dieci; il quadricipite, infatti, è dieci volte più grande del bicipite.

Il training del quadricipite
L’allenamento per sviluppare il quadricipite comprende: squat e pressa, come esercizi base, leg extension, hack squat, affondi frontali e affondi laterali, come esercizi complementari. Questi esercizi sono tutti molto noti, ma eseguirli correttamente non è così scontato e costa veramente molta fatica.

Come si esegue correttamente lo squat e il leg extension
Lo squat va sempre eseguito mantenendo il ginocchio, in asse con i due segmenti ossei che lo delimitano (femore e tibia-perone). Quindi, durante l’esecuzione, bisogna controllare se la proiezione del bilanciere cade entro l’area compresa tra le caviglie. Nel caso non si riesca ad assumere la corretta posizione, sarebbe consigliabile non massacrarsi schiena e glutei, ma dedicarsi alla pressa, altrimenti in futuro si potrebbero verificare gravi problemi ai legamenti. Quando fate il leg extension, regolate la macchina in modo da ridurre la flessione e l’estensione massima della gamba.

Per rendere più intenso l’esercizio, non aumentate il carico, ma il numero delle ripetizioni. In questo modo eviterete di stressare troppo l’articolazione del ginocchio.

Qui sotto troverete una particolare proposta d’allenamento delle gambe redatta da Piero Nocerino (Professional BodyBuilder) adatta chiaramente ad atleti avanzati che vogliono sbloccare una fase di stallo della parte inferiore del corpo!

Allenamento delle gambe “Cybergenics”
L’allenamento delle gambe “Cybergenics” era così strutturato….Allenamento rigorosamente effettuato a digiuno da almeno 13 ore di starving da carbo.

Primo Blocco

    • Riscaldamento 2×15 alla leg extension
    • Superserie squat in stripping 12-12-12 togli il 30% del peso ad ogni scalata
    • Leg extension in stripping 12-12-12 max togli il 30% ad ogni scalata

Secondo blocco di strazio psicofisico….

    • Leg press serie da 15 reps
    • Superserie con sissy squat ad esaurimento
    • Subito dopo: balzi esplosivi verso l’ alto ad esaurimento

tutto questo per 4 o 5 triple-sets….

Dopo se siete ancora vivi

    • Bicipiti femorali: leg curl in superserie con stacchi a gambe tese 5 superserie alla morte
    • Polpacci 5×20 con blocco ematico alla fine di ogni serie rimanendo accovacciato sulle punte e riprendendo la serie subito dopo….mortale !!

tutto questo per 4 mega serie da 4 mini blocchi da 15 reps+ blocchi ematici.

    • Pasto successivo: solo proteine per non spezzare la biologia della secrezione del gh.


Dopo 2 ore finalmente carbo !

Piero Nocerino,
Professional Body Builder

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (prima parte)

In questa tesi di laurea, il dr. Ginetto Bovo tratta in maniera approfondita tutti gli aspetti riguardanti il diabete di tipo 2 ed il ruolo che l’esercizio fisico svolge nella prevenzione ed il miglioramento di tale patologia.

In seguito verranno discussi gli aspetti molecolari ed il meccanismo d’azione di questa complessa patologia che affligge ogni anno milioni di persone e che dalla stime statistiche è in costante aumento.

Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari

Indice

Introduzione

Aspetti generali

1. Insulina ed esercizio

2. Insulino resistenza

Fattori prerecettoriali, recettoriali (genetici) e postrecettoriali nello sviluppo dell’insulino resistenza

1. fattori prerecettoriali: TNF alfa, Adiponectina, Obesità, Leptina, Amilina, Bilancio Energetico, sFFA;

2. fattori recettoriali (genetici);

3. fattori postrecettoriali:

1. Recettori e trasduzione del segnale: brevi caratteristiche generali;

2. GLUT4;

3. Trasporto e metabolismo del glucosio nel muscolo scheletrico;

4. Trasduzione intracellulare del segnale insulinico;

5. Effetti dell’esercizio fisico nella trasduzione intracellulare dei segnali insulinici;

6. Sistemi non insulino dipendenti in grado di potenziare il trasporto e il metabolismo del glucosio nel muscolo scheletrico (AMP Kinasi e MAP Kinasi) ed effetti dell’esercizio fisico.

INTRODUZIONE

(Zimmet 2001, Booth 2002)

Nel libro “Oxford Textbook of Public Health” – Ed. 2002 – è scritto testualmente che l’inattività fisica (sedentarietà) è uno dei maggiori fattori di diffusione della malattia diabetica tipo 2 e dell’obesità. Attualmente il diabete tipo 2 colpisce dal 3 al 5% della popolazione sia nei paesi sviluppati che di quelli in via di sviluppo. E’ noto che, in genere, tra il manifestarsi della malattia e la sua diagnosi passano almeno 5  10 anni. Per questo motivo si pensa che allo stato attuale una stessa percentuale di persone sarebbe affetta da malattia senza esserne a conoscenza. Inoltre, l’OMS informa che nei prossimi 10 anni l’incidenza del diabete tipo 2 è destinata a raddoppiare a causa dell’aumento percentuale dei soggetti in sovrappeso anche nei paesi in via di sviluppo. Secondo recenti risultati ottenuti dal Finnish Diabetes Prevention Study è stato dimostrato che il rischio di patologia diabetica può essere ridotto di ben il 58% mediante programmi mirati che includano anche l’esercizio fisico. La malattia è conseguente a fattori genetici con più o meno spiccate componenti ambientali ed è spesso caratterizzata da una concentrazione plasmatica media di insulina essenzialmente normale o anche elevata. La malattia si manifesta nella popolazione dopo i 30 anni. Due sono, fino ad oggi, i principali fattori chiave responsabili conosciuti: l’insulino resistenza e l’obesità. Su queste due principali cause di diabete tipo 2 l’esercizio fisico produce degli effetti positivi importanti (riduzione della massa adiposa, aumentata sensibilità all’insulina, ecc.). Nonostante il contributo in senso patologico del fattore genetico, il diabete tipo 2 può essere ampiamente prevenuto. Il genoma umano è stato evolutivamente programmato per l’esercizio fisico. L’inattività fisica, caratteristica dello stile di vita moderno, è ampiamente responsabile della diffusione di questo tipo di malattia. Il mancato movimento fisiologico interagisce direttamente con il genoma determinando l’attivazione di fattori patologici iniziali che conducono progressivamente verso la malattia conclamata. E’ stimato che entro l’anno 2020 ci saranno nel mondo approssimativamente circa 250 milioni di persone affette da diabete tipo 2. L’insulina è un ormone fondamentale per regolare la quantità di zuccheri nel sangue dopo i pasti e a digiuno. Le cellule dei pazienti diabetici sono incapaci di assorbire il glucosio, che rimane nel sangue raggiungendo livelli pericolosi per la salute in quanto può contribuire a glicolisare irreversibilmente alcune importanti proteine. Il diabete determina l’incapacità dell’organismo di ossidare il glucosio. Conseguentemente sia l’insulina che il glucosio si accumulano nel sangue. I valori glicemici normali o patologici a digiuno sono i seguenti:

    • 70÷115 mg/dl nei soggetti normali;
    • 115÷140 mg/dl nei soggetti con ridotta tolleranza agli idrati di carbonio;
    • 140 mg/dl nei pazienti diabetici.

Secondo un articolo apparso nella rivista “Nature” del 13 dicembre 2001 i dati relativi alla diffusione nel mondo della malattia diabetica e le relative previsioni sono i seguenti:

– anno 2000: 151 milioni (n. di persone con diabete)

– anno 2010: 221 milioni (n. di persone con diabete)

incremento 46%.

ASPETTI GENERALI

Insulina ed esercizio fisico (Marliss 2002, Zierath 2000 Shulman 2002)

L’insulina determina il metabolismo generale e l’omeostasi energetica mediante l’interazione centrale e periferica con i recettori insulinici la cui attivazione risulta coinvolta nella regolazione della sensibilità. Generalmente la concentrazione dell’insulina plasmatica diminuisce in corso di esercizio fisico sia per effetto di una aumenta eliminazione epatica sia a causa di una ridotta secrezione mediata dalla stimolazione dei recettori alfa adrenergici cui si lega l’andrenalina a livello delle cellule beta dell’insula pancreatica. In vitro è stato dimostrato che la captazione del glucosio durante la contrazione avviene mediante un meccanismo insulino indipendente e che l’insulina e la contrazione muscolare hanno effetti additivi sul trasporto del glucosio. Bassi livelli di glicogeno limitano la prestazione sportiva per cui diventa straordinariamente importante la resintesi di questo carboidrato dopo l’esercizio fisico. Se nel periodo immediatamente seguente la seduta di attività fisica non vengono introdotti i carboidrati la ricostituzione delle scorte di glicogeno è non solo rallentata ma anche incompleta. I possibili meccanismi coinvolti nella migliorata sensibilità dei recettori insulinici dopo esercizio fisico potrebbero essere i seguenti. In corso di attità fisica si determina, per effetto degli ormoni catabolici (glucagone, catecolamine, cortisolo, GH), un aumento dell’attività glicogenolitica ed una concomitante riduzione dell’attività glicogenosintetica. Conseguentemente dopo esercizio fisico, il basso livello di glicogeno favorisce in ultima analisi il miglioramento della sensibilità dei recettori insulinici in quanto si determina un aumento della captazione del glucosio, necessario per la sintesi del glicogeno, e un aumento dell’attività dell’enzima glicogenosintetasi (GS) nella sua forma attiva defosforilata. A riposo, gli elevati livelli di glicogeno esercitano un’azione inibitoria sulla traslocazione delle proteine trasportatrici del glucosio (GLUT4) e sulla glicogenosintetasi sia direttamente che indirettamente dalle molecole trasduttrici del segnale insulinico. Dopo esercizio si verifica esattamente la situazione opposta in cui bassi livelli di glicogeno stimolano la traslocazione delle GLUT4, la captazione del glucosio, la trasformazione dell’UDP-glucosio in glicogeno. Quest’ultima situazione si accompagna transitoriamente ad una inevitabile aumentata sensibilità dei recettori insulinici. L’enzima glicogenosintetasi (GS) catalizza la reazione dell’UDP-glucosio in glicogeno nel muscolo scheletrico. In relazione alla tappa riguardante il trasporto di glucosio, l’attività dell’enzima GS costituisce il fattore limitante nella conversione del glucosio in glicogeno. La GS è regolata sia da fattori allosterici (principalmente glucosio 6-fosfato) sia da modificazioni covalenti mediante fosforilazione e defosforilazione reversibili che determinano rispettivamente l’inattivazione o l’attivazione della GS. L’attivazione dell’enzima GS avviene attraverso l’inattivazione della kinasi che agisce sulla GS stessa, ma anche mediante l’attivazione delle GS fosfatasi che risulta principalmente coinvolte nelle proteine fosfatasi I (PPI).

L’insulina e l’esercizio fisico sono due importanti regolatori fisiologici di attività della GS, nonostante i sottostanti meccanismi non siano stati completamente compresi. La stimolazione insulinica dell’enzima GS molto probabilmente coinvolge la deattivazione della GSK3 e l’attivazione del PPI. Si è pensato per qualche tempo che il glicogeno muscolare fosse un potente inibitore della GS, ma è stato evidenziato anche che alti livelli di glicogeno possono ridurre la potenziale attività dell’insulina di attivazione della GS. Molto recentemente, lo sviluppo di anticorpi specifici in grado di riconoscere la fosforilazione dei siti specifici della GS hanno aggiunto importanti informazioni riguardanti l’attività di questo enzima sia nel diabete tipo 2 che negli effetti attivati dall’esercizio fisico. L’insulina non stimola la captazione del glucosio nel fegato, ma inibisce la glicogenolisi e la gluconeogenesi, e stimola la glicogenosintesi regolando in questo modo il livello di glicemia a digiuno. I tessuti cosiddetti “insulino indipendenti” quali il cervello e le cellule beta pancreatiche, possono essere importanti nell’omeostasi del glucosio.

Insulino resistenza (Shulman 2000, Chakravarthy 2002, Kahn 2000)

L’insulino resistenza consiste in una ridotta risposta dei tessuti periferici (adiposo, epatico, muscolare) all’azione dell’insulina che si lega con una minore affinità al suo specifico recettore. Il muscolo scheletrico è stato indicato come il sito più importante di resistenza all’insulina nel diabete tipo 2. I livelli di GLUT4 aumentano in seguito all’allenamento atletico sia nei soggetti normali che nei pazienti NIDDM che vanno incontro ad un aumento delle sensibilità del muscolo all’insulina. L’insulino resistenza è uno dei fattori chiave responsabile dell’iperglicemia ed è la conseguenza di numerose anormalità metaboliche associate alle malattie cardiovascolari (sindrome da insulino resistenza anche in assenza di diabete conclamato). I meccanismi coinvolti nell’insulino resistenza sono multifattoriali e solo parzialmente compresi. Fra questi risulta particolarmente importante l’aumentata disponibilità degli acidi grassi (sFFA) per i danni da questi provocati a livello del sistema muscolare. Il ruolo degli sFFA nel diabete tipo 2 è particolarmente evidente nei soggetti obesi che hanno diverse anormalità del metabolismo lipidico. L’esercizio fisico tramite l’aumentata captazione del glucosio ematico può contribuire nei soggetti con insulino resistenza a migliorare l’omeostasi glicemica. L’insulino resistenza è un aspetto fondamentale nell’eziologia del diabete tipo 2 ed è anche legata, tramite meccanismi diversi all’ipertensione, all’iperlipemia, all’aterosclerosi, alla policisti dell’ovaio. L’insulino resistenza nell’obesità è manifestata da un diminuito trasporto e metabolismo del glucosio negli adipociti o nel muscolo e da una peggiorata soppressione della produzione epatica di glucosio. Anche se le cause primarie del diabete tipo 2 sono tuttora sconosciute, l’insulino resistenza è comunque uno dei principali fattori nello sviluppo di questa malattia. L’insulino resistenza non è più la causa ma è l’effetto (es. di un deficit della sintesi del glicogeno a livello muscolare) e consiste essenzialmente in un difetto nella trasduzione del segnale in un punto della catena che va dal recettore fino alla parte terminale della sequenza di reazioni che determina i vari effetti metabolici. La combinazione di parecchi effetti associati risultano in un debole segnale di trasduzione, insufficiente a generare una risposta totale di assunzione di glucosio. Il sistema muscolare è il principale tessuto responsabile dell’insulino resistenza . Il muscolo scheletrico è stato indicato come il sito più importante di resistenza all’insulina, (fibre rosse o aerobiche in particolare) nel diabete tipo 2. Fra i fattori che contribuiscono all’insulino resistenza vi è anche il cambiamento energetico inteso come rapporto fra ATP ed il prodotto ADP libero e fosfato inorganico: APT/ADP libero + Pi libero. Recenti dati ottenuti da vari gruppi di pazienti hanno evidenziato un nuovo meccanismo di insulino resistenza: un diminuito effetto dell’insulina nello stimolo del flusso ematico. Sono state evidenziate alcune ricerche in cui il meccanismo opposto può elevare l’insulino sensibilità negli individui allenati aerobicamente. Alcuni ricercatori hanno dimostrato l’esistenza di recettori insulinici nell’endotelio vascolare dei muscoli scheletrici. Questo può significare che la maggior densità dei capillari nei muscoli allenati può migliorare l’azione insulinica nei soggetti attivi che, ovviamente, hanno una frazione significativa di fibre lente (ossidative) nei muscoli sottoposti ad esercizio. Alcuni studi hanno dimostrato che questo profilo si accompagna a uno stato di migliore insulino sensibilità.

 

VEDI ANCHE:

Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (seconda parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (terza parte)
Esercizio fisico e diabete di tipo 2 (quarta parte)


Laurea in Scienze Motorie

Tesi di laurea: Ruolo dell’esercizio fisico nella prevenzione primaria del diabete tipo 2: aspetti molecolari
Relatore: Ch.mo Prof. Federico Schena
Laureando: Ginetto Bovo
Anno accademico 2001-2002

Ergometria e sport (esercitazione alla leg extension)

Per spiegare questo elaborato non possiamo far passare inosservato il termine che dà il titolo a questo trattato: l’ergometria. L’ergometria è, appunto, quella disciplina che misura, quantitativamente, le variazioni energetiche e del rendimento fisico dell’uomo (in termini più spiccioli, il lavoro muscolare), avvalendosi dell’uso di uno strumento: l’ergometro (un dinamometro con cui si misura la potenza utile ad una macchina o del lavoro muscolare).

Il nostro obiettivo, conoscendo il lavoro delle forze muscolari in determinati esercizi fisici, è quello di elaborare gli stessi, facendo attenzione alla velocità d’esecuzione (molto importante e molto trascurata dato che si tende a porre l’attenzione solo sul carico da sollevare) ed ai carichi, per ottenere risultati utili in vari campi del movimento, dal puro potenziamento fisico, a scopi puramente medici, come quello della riabilitazione.

Per misurare esattamente il lavoro delle forze muscolari, si dovrebbe conoscere la forza esercitata da ogni singolo muscolo, con l’uso di dinamometri tra muscoli e i relativi punti d’inserzione. Quindi ricorreremo alla stima, per semplificazione, delle forze muscolari, usando il teorema LAVORO-ENERGIA.

Materiali e metodi

Per eseguire questa stima, prima di tutto, andiamo a vedere la variazione di energia potenziale determinata dal lavoro stesso:

L=(Uf – Ui)

Noi andremo a studiare la stima delle forze muscolari e del lavoro durante un esercizio eseguito su una macchina da fitness, la leg extension, ove viene coinvolta una sola articolazione, quella del ginocchio ed un ridotto distretto muscolare, il quadricipite. La leg extension è concepita in modo che all’escursione angolare della gamba venga sollevato un pacco pesi che, essendo collegato ad un paranco, ha il peso dimezzato. L’energia potenziale del pacco pesi è data quindi dalla forza peso per la variazione di quota:

L=(Uf – Ui)
=mg(hf – hi)

il lavoro è quindi la forza per lo spostamento: L=F*S

In realtà però non è così, in quanto non si sono considerati gli attriti dovuti alle carrucole e l’accelerazione applicata al pacco pesi mentre questo viene sollevato. Allora abbiamo applicato un dinamometro sulla corda di collegamento tra pacco pesi e braccetto mobile della macchina, registrando la forza misurata durante l’esecuzione lenta dell’esercizio; poi, coadiuvati da un filmato, abbiamo preso in considerazione due fotogrammi, uno nell’istante iniziale del sollevamento pesi, uno nel momento della massima estensione della gamba. Per ognuno abbiamo noti il valore della forza misurata dal dinamometro in quell’istante e l’escursione del pacco pesi su un riferimento metrico. Con la media dei due valori della forza e con l’escursione del pacco pesi si è potuta fare una stima più precisa del lavoro delle forze muscolari durante l’esercizio.

Per quanto riguarda la potenza: P = L/T

Con il valore del lavoro e i due istanti di tempo, ecco calcolata la potenza espressa durante l’esercizio. Infine, abbiamo stimato la forza muscolare del soggetto nei due istanti dell’esercizio, rappresentando la situazione sperimentale con due diagrammi del corpo rigido con asse fisso: uno per la descrizione della gamba con la cerniera ginocchio e uno per la descrizione del braccetto mobile con cerniera della macchina.

Risultati

Dati noti

  • pacco pesi: 15kg (di cui, effettivi, per la presenza del paranco, la metà, ossia 7,5 kg)
  • braccetto (peso): 8kg
  • istante di tempo T1 = 0,36 s
  • istante di tempo T2 = 0,80 s
  • istante I (forza misurata dal dinamometro): 112 N
  • istante II (forza misurata dal dinamometro): 75 N
  • escursione del pacco pesi: S = 0,306 m

Ricavare

  • Lavoro: ?
  • Potenza: ?
  • Forza muscolare: ?

Il lavoro può essere stimato in due modi:

1 lavoro: F*S = 93,5*0,306 = 28,6J

2 lavoro: mg*S = (15*9,8)*0,153 = 22,5J

Il primo valore, sperimentale, è quello che più si avvicina alla realtà; il secondo, teorico, invece non tiene conto degli attriti; la differenza tra questi valori corrisponde perciò al lavoro dovuto agli attriti:

28,6-22,5 = 6,1 J

La potenza corrisponde, abbiamo detto, al lavoro nell’intervallo di tempo:

Potenza= L/T —–> L/T2 – T1 —–> 28,6/0,44 = 65 N

Infine, calcoliamo la forza muscolare del soggetto. Del primo diagramma, relativo alla macchina, agiscono tre forze: la Fg (forza peso del braccetto applicata sul centro di massa del braccetto), la Fc (forza esercitata dal pacco pesi misurata dal dinamometro) e la Fs (forza di contatto tra il cuscinetto e la gamba); con Fg, Fc, e i relativi bracci, possiamo ricavare Fs.

Diagramma macchina

– Fg*dg + Fs*ds – Fc*dc = 0

I istante: -(9,8*8)*0,14 + Fs*0,338 – 112*0,46 = 0 —–> Fs = 184,8 N

II istante: -(9,8*8)*0,20 + Fs*0,338 – 75*0,45 = 0 —–> Fs = 146,2 N

Nel sistema della gamba possiamo notare tre forze: la Fp (forza peso della gamba e del piede, applicata sul centro di massa del sistema gamba/piede), la Fs (forza di contatto del cuscinetto già misurata nel diagramma della macchina), la Fm (forza muscolare); conoscendo le prime due forze (Fp,Fs) e i relativi bracci (misurati sulla figura) andiamo questa volta a ricavare la Fm.


Diagramma gamba

– Fp*dp – Fs*ds + Fm*dm = 0

I istante: (9,8*4,2)*0,112 – 184,8*0,3 + Fm*0,05 = 0 —–>Fm = 1200,8 N

II istante: (9,8*4,2)*0,21 – 146,2*0,3 + Fm*0,08 = 0 —–> Fm = 656,25 N


Conclusioni

Lavoro, potenza e forza muscolare : sono questi gli elementi che intendevamo analizzare. Nel corso di questa esercitazione abbiamo – per esempio – visto che la forza misurata dal dinamometro è diversa nei due istanti di tempo ed è maggiore all’inizio dell’esercizio (nell’istante I) perché, iniziando a sollevare il peso, il soggetto imprime una certa accelerazione sul braccetto (per questo il dinamometro registra una forza maggiore della forza peso del carico). Nell’istante II, con la massima estensione, possiamo considerare la gamba in una fase di stasi, che farà misurare al dinamometro un valore molto vicino alla forza peso del carico (valore misurato: 75 N; forza peso del carico: 15kg, ossia 147 N che, dimezzati dal paranco, sono: 73,5 N). Per stimare lavoro e potenza, abbiamo preso in considerazione la forza media tra i due istanti (93,5 N). La Fm, poi , è risultata maggiore nell’istante I rispetto all’istante II. Se consideriamo come è fatto il ginocchio umano, quando la gamba si distende, il tendine rotuleo (la direzione della Fm del quadricipite applicata alla gamba) si allontana dal centro di rotazione del ginocchio; per questo motivo, nella seconda foto, la Fm applicata alla tibia ha un braccio più lungo rispetto alla foto numero uno, cioè alla posizione di partenza.

Note: le immagini hanno solo la funzione di rappresentare schematicamente la teoria ergometrica, il soggetto nelle foto è Francesco Crisafulli, Personal Trainer e 2 volte campione Italiano F.I.P.C.F. CONI.

 

 
Cristina Mezzanotte
Dr.ssa in Scienze Motorie

Allenamento eccentrico e prevenzione dei danni muscolari

L’evento lesivo a livello muscolare, costituisce uno degli insulti traumatici più ricorrenti in ambito sportivo. L’entità della lesione può andare dal semplice stiramento, spesso associato a rottura dei piccoli vasi, con comparsa di dolore e tumefazione, sino allo strappo muscolare completo.

Le conseguenze per lo sportivo, che appaiono ovviamente correlate all’entità della lesione subita, sono sempre comunque sgradevoli e comportano sempre una sospensione, più o meno lunga, dell’attività agonistica e l’attuazione di un’ idonea terapia fisica.

Ma le lesioni muscolari possono essere correlate ad un particolare tipo di attivazione muscolare? Ed inoltre si possono mettere in atto delle strategie, per cosi dire “preventive” a riguardo?

Nelle poche righe che seguono cercheremo di rispondere, anche se non ovviamente in modo esaustivo, data la complessità del problema, a queste domande, cercando, oltre che di fare chiarezza sugli eventi fisiologici che normalmente caratterizzano l’evento traumatico, di fornire alcune indicazioni di ordine pratico per cercare di mettere in atto un condizionamento muscolare il più idoneo possibile alla prevenzione, entro ovviamente certi limiti, di questo tipo di traumi.

Danno strutturale e modalità di contrazione

Il danno strutturale della fibra muscolare può essere causato, sia da una singola contrazione muscolare, come dall’effetto cumulativo di una serie di contrazioni (Armstrong, e coll., 1991). In ogni caso, il meccanismo maggiormente correlato al possibile danneggiamento della fibra muscolare, risulterebbe essere la contrazione di tipo eccentrico (Armstrong, 1990; Garret, 1990). La ragione della maggior incidenza traumatica a livello muscolare, riscontrabile durante una situazione di contrazione eccentrica, è soprattutto imputabile alla maggior produzione di forza registrabile nel corso di quest’ultima, rispetto a quanto non avvenga nella modalità di attivazione di tipo concentrico od isometrico (Stauber, 1989; Garret, 1990). Infatti durante una contrazione eccentrica, effettuata alla velocità di 90° · s-1, la forza espressa dal distretto muscolare risulta essere di ben tre volte maggiore di quella espressa, alla stessa velocità, durante una contrazione concentrica (Middleton e coll., 1994). Inoltre, durante una contrazione eccentrica, risulta maggiore anche la forza prodotta dagli elementi passivi del tessuto connettivo del muscolo sottoposto ad allungamento (Elftman, 1966). Soprattutto in riferimento a quest’ultimo dato, occorre sottolineare come anche il fenomeno puramente meccanico dell’elongazione, possa giocare un ruolo importante nell’insorgenza dell’evento traumatico, visto che quest’ultimo può verificarsi, sia in un muscolo che si presenti attivo durante la fase di stiramento, come in un distretto muscolare che sia passivo durante la fase di elongazione (Garrett e coll., 1987). Durante la contrazione eccentrica il muscolo è in effetti sottoposto ad un fenomeno di “overstretching” che, in quanto tale, può determinare l’insorgenza di lesioni a livello dell’inserzione tendinea, della giunzione muscolo-tendinea, oppure a livello di una zona muscolare resa maggiormente fragile da un deficit di vascolarizzazione (Middleton e coll., 1994). E’ interessante notare come siano i muscoli pluarticolarii quelli maggiormente esposti ad insulti traumatici, proprio per il fatto di dover controllare, attraverso la contrazione eccentrica, il range articolare di due o più articolazioni (Brewer, 1960). Anche la diversa tipologia delle fibre muscolari presenta una differente incidenza di evento traumatico. Le fibre a contrazione rapida (FT), sono infatti maggiormente esposte a danni strutturali rispetto a quelle a contrazione lenta (ST), probabilmente a causa della loro maggior capacità contrattile, che si traduce in un’accresciuta produzione di forza, e di velocità di contrazione, rispetto alle fibre di tipo ST (Garret e coll., 1984; Friden e Lieber, 1992). Inoltre i muscoli che presentano un’alta percentuale di FT, sono generalmente più superficiali (Lexell e coll., 1983) e normalmente interessano due o più articolazioni, fattori entrambi predisponenti al danno strutturale (Brewer, 1960; Garret, 1990). Inoltre è interessante notare come l’insulto traumatico sia prevalentemente localizzato a livello della giunzione muscolo-tendinea, a testimonianza del fatto che in questa zona, come del resto nella porzione finale della fibra muscolare, si verifichi il maggior stress meccanico (Garrett, 1990; Garrett e coll., 1987; Lieber e coll., 1991). In ultimo occorre sottolineare il particolare aspetto metabolico connesso alla contrazione di tipo eccentrico. Durante la contrazione di tipo eccentrico, dal momento che la vascolarizzazione muscolare viene interrotta, il lavoro svolto è di tipo anaerobico, questo determina, sia un aumento della temperatura locale, che dell’acidosi, oltre ad una marcata anossia cellulare. Questi eventi metabolici si traducono in un’aumentata fragilità muscolare ed in una possibile necrosi cellulare, sia a livello muscolare, che del connettivo di sostegno (Middleton e coll., 1994).

 

L’allenamento eccentrico come metodologia di allenamento muscolare di tipo “preventivo”

Considerando quindi il fatto che il muscolo si presenta particolarmente vulnerabile nel momento in cui venga sottoposto ad una contrazione di tipo eccentrico, soprattutto quando quest’ultima sia di notevole entità, come nel caso di uno sprint, di un balzo o di comunque un gesto di tipo esplosivo, nasce l’esigenza di “condizionare” i distretti muscolari maggiormente a rischio con un tipo di lavoro consono a questa particolare esigenza. Si tratta quindi di agire secondo una metodologiche di lavoro di lavoro che comporti la ricerca dell’ instaurazione di un ambiente muscolare acido, condizione immediatamente seguita, senza soluzione di continuità, da una serie di contrazioni eccentriche rapide (definibili come eccentriche-flash) effettuate sull’atleta da un operatore, oppure da una contrazione eccentrica lenta e controllata (che potremmo definire come eccentrica-classica). L’acidosi muscolare può essere prodotta da una serie di scatti a velocità massimale , ancor meglio se effettuati su distanze relativamente brevi (20-30 metri) con arresto e cambio di direzioni immediati, in modo da ricalcare, nella biomeccanica di corsa, il più possibile il modello prestativo. In tal modo il condizionamento muscolare è orientato verso un progressivo adattamento nello sviluppare contrazioni eccentriche rapide ed intense in condizioni di forte acidosi e di marcata anossia cellulare. Questo tipo di lavoro, come riportato nell’esempio 1, si dimostra particolarmente interessante per il bicipite femorale. Per provocare una marcata acidosi locale, del bicipite femorale, è possibile indurre quest’ultima attraverso un esercitazione muscolare settoriale, come l’esercizio di leg curl, eseguito ad esaurimento muscolare completo, immediatamente seguito dall’esercitazione eccentrica, come descritto dall’esempio 2.

Un altro schema di lavoro interessante, sempre a carico del bicipite femorale, è costituito da una serie di corsa calciata, eseguita ad alta intensità, con l’ausilio di bande elastiche, della durata di alcuni secondi, seguita da una serie di contrazioni eccentriche-flash (esempio 3) o da contrazioni eccentriche di tipo tradizionale (esempio 4). Ricordiamo che una serie eccentrica, definibile come di tipo “classico”, comporta l’utilizzo di un carico sovra-massimale (110%-120% del carico massimale) ed un numero di ripetizioni compreso tra 3 e 4, la fase eccentrica deve essere eseguita molto lentamente e naturalmente la fase concentrica deve essere effettuata grazie ad un aiuto esterno. Data la diversità della modalità di contrazione eccentrica tra il cosiddetto “eccentrico-flash” ed il metodo “eccentrico classico”, sarebbe buona norma adottare entrambi questi tipi di lavoro, al fine di ottenere un condizionamento muscolare consono ad entrambi i pattern di attivazione. Lo stesso tipo di lavoro è proponibile anche per il quadricipite femorale (esempio 5), in questo caso dopo una serie di skip con resistenza elastica, viene eseguita una serie di “eccentrico classico” al leg extension, oppure di contrazioni eccentriche “flash” (esempio 6). Questi esempi esercitativi, che naturalmente posso essere integrati o modificati, sempre restando in quest’ottica metodologica, possono quindi costituire sia un egregio lavoro di tipo preventivo nei confronti dei possibili danni muscolari, sia, ovviamente con i dovuti adattamenti, fornire una solida base di condizionamento muscolare per ciò che riguarda i piani di lavoro riabilitativo susseguenti ad eventi traumatici a livello muscolare.

 

Che cosa è la contrazione eccentrica…

La contrazione di tipo eccentrico è un particolare tipo di attivazione muscolare durante il quale il muscolo produce forza, anziché accorciandosi come durante il lavoro concentrico, allungandosi. Per spiegare in termini pratici questo concetto di meccanica muscolare, immaginiamo di tenere in mano con il braccio piegato a 90°, un manubrio il cui peso sia molto maggiore rispetto alla massima forza esprimibile dal mio bicipite, poniamo 60 kg. In questo caso, nonostante ogni sforzo, non posso certamente flettere il braccio e portare il manubrio verso la spalla, abbiamo appena detto che il suo peso è maggiore della mia forza, anzi il mio braccio si distenderà verso il basso, proprio in virtù del grosso carico che tengo in mano. L’unica cosa che sono in grado di fare in questa situazione, è cercare di rallentare al massimo la caduta del carico, grazie appunto ad una contrazione eccentrica del mio bicipite. In questa condizione il mio muscolo funziona come un vero e proprio “freno”, più riuscirò a rallentare la caduta del peso, maggiore sarà la forza di tipo eccentrico espressa.

Figura 1: La modalità di contrazione concentrica (riquadro di sinistra), prevede l’accorciamento del ventre muscolare, mentre quella eccentrica (riquadro di destra), vede il muscolo allungarsi.

 

Esempio 1: L’esercitazione è complessivamente composta una serie di 5 scatti a velocità massimale effettuati su di una distanza breve(20 metri), con arresto e cambiamento di direzione, effettuati senza soluzione di continuità, abbinati ad una serie di “contrazioni flash” (10 —15 ripetizioni per gamba) a carico del bicipite femorale.

 

Esempio 2 : Per provocare una marcata acidosi locale, del bicipite femorale, è possibile effettuare un esercitazione muscolare settoriale, come il leg curl, eseguito ad esaurimento muscolare completo (65-70% del carico massimale per 12-10 RM), immediatamente seguito da una serie di “contrazioni flash” (10 —15 ripetizioni per gamba).

 

Esempio 3: Un altro schema di lavoro a carico del bicipite femorale, può prevedere una serie di corsa calciata, eseguita ad alta intensità, con l’ausilio di bande elastiche, della durata compresa tra i 20 ed i 30 ‘’, immediatamente seguita da una serie di contrazioni eccentriche-flash (10 —15 ripetizioni per gamba).

 

Esempio 4: Lo stesso schema di lavoro dell’esempio precedente, nel quale però l’eccentrico “flash” è stato sostituito dall’eccentrico “classico” (carico pari al 120% del massimale, 3- 4 ripetizioni eseguite il più lentamente possibile). E’ sempre buona norma adottare entrambi questi tipi di lavoro, al fine di ottenere un condizionamento muscolare consono ad entrambi i pattern di attivazione.

 

Esempio 5: Lo stesso tipo di lavoro per il quadricipite femorale, in questo caso dopo una serie di skip con resistenza elastica della durata di 20-30’’ viene eseguita una serie di eccentrico “classico” al leg extension. (carico pari al 120% del massimale, 3- 4 ripetizioni eseguite il più lentamente possibile).

 

Esempio 6: Esercitazione simile alla precedente dove però,dopo una serie di skip con resistenza elastica sempre della durata di 20-30’’, viene eseguita una serie di eccentrico “flash” (10 —15 ripetizioni per gamba). Anche nel caso del quadricipite femorale è sempre consigliabile adottare entrambe le modalità di contrazione eccentrica (classica e flash).

 

Nota: In tutti gli schemi di lavoro sopra illustrati, il numero di serie consigliabile oscilla tra 3 e 6. Il tempo di recupero deve essere relativamente importante (dell’ordine di 3-4’ , all’occorrenza anche oltre) per poter permettere all’atleta di effettuare le serie successive ad un’alta intensità di lavoro, condizione essenziale per poter indurre un’apprezzabile acidosi muscolare.

 

Per chi volesse saperne di più…

Armstrong RB. Initial events in exercise induced muscular injury. Med. Sci. Sports Exerc. 22: 429-437, 1990.

Armstrong RB., Warren GL., Warren A. Mechanism of exercise induced fiber injury. Sports Med. 12: 184-207, 1991.

Brewer BJ. Instructional Lecture American Academy of Orthopaedic Surgeons 17: 354-358, 1960.

Elftman H. Biomechanics of muscle. J. Bone Joint Surg. 48A : 363, 1966.

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 Gian Nicola Bisciotti
Dr. in Scienze Motorie

Come sfruttare l’insulina per incrementare la massa muscolare

Il nostro campione, Francesco Crisafulli, spiega il rapporto carboidrati-energia; come sfruttare l’insulina per incrementare la massa muscolare, prestando attenzione a come, a quanto e a quando assumere determinati carboidrati.

Questo breve trattato vuole fare un po’ di chiarezza sullla corretta metodica alimentare con uno sguardo in più all’ indice glicemico ed alla stimolazione naturale dell’insulina.

Oggi vorrei spiegare come si può sfruttare l’IG (indice glicemico) in chi pratica dell’attività sportiva e che cerca di trarre il massimo da ogni aiuto che gli si presenta.

Per iniziare, possiamo dire che un miglioramento nell’utilizzazione dei carboidrati ottenuto tramite la manipolazione alimentare e l’utilizzo degli indici glicemici, può portare non solo ad un miglioramento, ma anche ad un aumento della massa corporea senza accumulo di grasso, nonché ad un calo delle frazioni lipidiche nel sangue, con conseguente riduzione dei fattori di rischio cardiovascolari. La scarsa tolleranza ai carboidrati, si traduce nella difficoltà a recuperare le energie una volta terminato l’allenamento ed a ricreare la riserva di glicogeno nei tessuti muscolari, nonostante l’esercizio fisico provochi un miglioramento della capacità di trasporto ed utilizzazione di glucosio (non solo da parte dei muscoli, forse perché quest’ultimo effetto è transitorio). Cominciare l’allenamento con una quantità di glicogeno limitata, implica una notevole difficoltà nel portare a termine allenamenti intensi, figuriamoci per chi si cimenta in gare agonistiche che durano ore (ciclismo, maratone, ecc..).

Le conseguenze di depauperamento delle riserve di glicogeno possono avere effetti dannosi in quanto si può favorire la produzione di ormoni catabolici. In sostanza, se le riserve di glicogeno sono già scarse prima di affrontare l’allenamento, l’organismo dovrà affidarsi all’azione degli ormoni dello stress per trovare le energie che permettano di portare a compimento l’attività. Il problema maggiore è che questi “cata-ormoni” dello stress continuano a rimanere in circolo anche dopo aver terminato l’allenamento e possono rimanervi anche dopo aver consumato un pasto che psicologicamente ci fa presupporre di aver recuperato e ripristinato le energie spese (niente di più sbagliato). L’aumento del cortisolo, portato a livelli tali che l’organismo deve affidarsi a lui per trarre energia, influenza negativamente l’elaborazione e l’utilizzazione dei nutrienti introdotti con l’alimentazione, anche a distanza di sei ore dalla fine dell’allenamento.

In aggiunta, il cortisolo, genera resistenza all’insulina e influisce sulla tolleranza ai glucidi. Per quanto riguarda il pasto precedente l’impegno fisico, solitamente si consiglia di assumere, approssimativamente un’ora prima, dei carboidrati; se, però, l’organismo non è in grado di utilizzarli in modo efficace, si può avere un innalzamento rapido dei livelli di glucosio, dannoso sia per l’attività (con conseguente rebound e calo delle prestazioni), sia per l’organismo stesso. E’ proprio in questi soggetti che può rilevarsi ottima la scelta di alimenti con indici glicemici moderati o bassi. Abituandosi ad un regime alimentare corretto e ad uno stile di vita idoneo lo sportivo, che prima soffriva di mal tolleranza glucidica, potrà migliorare il suo metabolismo con conseguente aumento della capacità di ricostituzione delle riserve di glicogeno ed una diminuzione nella secrezione degli ormoni dello stress indotti dall’allenamento.

Il risultato finale comporta un miglioramento della ritenzione di azoto (anabolismo) ed un rimodellamento verso un corpo più snello. Ribadisco che l’attività sportiva è uno dei metodi più efficaci per aumentare la tolleranza ai carboidrati. Nelle due ore che seguono l’allenamento, il trasporto di glucosio nei muscoli aumenta ed è ormai pratica comune assumere un pasto contenente una elevata quantità di carboidrati appena terminato lo sforzo fisico. Questi consentono una rigenerazione del glicogeno più efficace, interrompono la gluconeogenesi e riducono la secrezione del cortisolo. Adesso arriva il nodo al pettine: chi possiede una normale tolleranza ai carboidrati può assumere questo pasto non facendo attenzione al tipo di carboidrato ingerito, in quanto ha una metabolizzazione ottimale; il problema è per lo sportivo che possiede una minore capacità di utilizzare questi zuccheri introdotti (anche se parzialmente aiutato dall’attività fisica appena svolta) in quanto i livelli di glucosio nel sangue potrebbero elevarsi repentinamente rispetto alla capacità di utilizzazione dei tessuti, con la possibilità che questo si depositi come grasso e non come glicogeno. Per questi soggetti, è consigliabile assumere un pasto con alimenti a medio indice glicemico o, se proprio se ne assumono ad elevato IG, devono avere l’accortezza di diluire l’ingestione in tempi più lunghi o più frazioni. Per quanto riguarda la quantità (parametro che ha un’influenza non trascurabile), deve essere stabilita in base a prove di tollerabilità effettuate su singolo soggetto.

Mangiare più lentamente e consumare più spesso piccoli pasti riduce efficacemente la risposta glicemica di qualsiasi tipo di carboidrati. Ingerire 50g di glucosio in una sola volta provoca un innalzamento della glicemia a cento mentre assumendo la stessa quantità di glucosio nell’arco di un’ora avremo una minore risposta glicemica e farà somigliare questo carboidrato ad uno con un indice sicuramente inferiore.

(fonte: Wikimedia – autore: P. Forster)

Gli integratori di fibre solubili sono utili nel ridurre la risposta glicemica causata dall’assunzione di cibi con elevato IG perché ne rallentano la digestione e l’assorbimento. Ciò non significa che gli integratori possono sostituire gli alimenti naturali, ma solo che la loro utilizzazione può risolvere determinati problemi di carenze o intolleranze. Termino questo argomento, a mio avviso interessante, dicendo che esistono molte persone che, pur non rendendosene conto, possiedono una mal tolleranza ai carboidrati e che, seguendo diete ricche di questi nutrienti e povere in grassi, possono incorrere in spiacevoli sorprese. In questi casi è bene optare per quegli alimenti a basso o medio IG (sempre in relazione alla composizione del pasto) che possono favorire un utilizzo ottimale delle energie a disposizione ed ottimizzare tutti i processi metabolici dell’organismo che non si ritrova più in uno stato di handicap funzionale.

Francesco Crisafulli,
Personal Trainer e 2 volte campione Italiano F.I.P.C.F. CONI.

Spalle alla griglia!

Partiamo dal presupposto che non parlerò delle solite noiose nozioni su inserzioni,infraspinati e compagnia briscola….Qui siamo nell’inferno della prassi e del sudore che corrode l’inchiostro dei trattati senza cuore.

Ciò non toglie che chiunque può accedere alla scienza esatta. Il signor Google vi toglierà ogni dubbio in merito. Anni fa rimasi affascinato da un personaggio, oggi abbastanza caduto nel limbo della smemoratezza, che contraddistingue oggi la nostra comunità.

Il dott. Squat, al secolo Frederick Hathfield. Il nostro dott. Squat scoprì l’uovo di Colombo, affermando che il muscolo era composto di fibre di colore diverso, per cui diverso doveva essere l’approccio all’allenamento, ove si desideri allenare l’interezza del patrimonio fibrillare.
Immaginiamo che il muscolo sia un cassettone ove dobbiamo infilare le camicie. Se ci ostiniamo a ingolfare lo stesso cassetto con tutte le camicie che abbiamo, siamo doppiamente stupidi…sgualciamo le camicie e non sfruttiamo il mobile nella sua interezza. Questa metafora, può essere considerata da apripista per sviluppare una proposta interessante di allenamento.

…Quindi…La cosa intelligente nella sua semplicità, fu quella di proporre un allenamento diciamo “multimediale”, che interessasse tutte le tipologie fibrillari nello stesso tempo. Occorreva organizzarlo. Partendo dal presupposto che l’acido lattico è un fattore limitante di una prestazione atletica, occorre tenerlo a bada il più possibile…ma come tutti sappiamo, uno dei campanelli d’allarme che scatenano la sintesi proteica è l’abbassamento del ph causato dall’acidosi stessa. Come fare?
la risposta fu semplice. Bastava concentrare all’inizio la metodica “pesante-atp dipendente” per poi passare ad una pratica esecutiva che stimolasse la produzione di “fatica” muscolare sotto forma di acido lattico. Questo consente di stimolare all’inizio le fibre bianche, quelle potenzialmente più ipertrofizzabili, lavorandole alla “centometrista style” mentre alla fine il sistema viene definitivamente intasato senza pietà con reps medio-alte, che gettino il fango dell’acidosi nel muscolo.

(Deltoid muscle,Original by sv:Användare:Chrizz, 28 maj 2005)

…Entrando nel pratico..Come strutturare un allenamento-tipo con questi presupposti?

Il riscaldamento iniziale deve essere intelligente. Deve lubrificare e avviare il muscolo allo sforzo massimale senza creare acido lattico. Con 3 o 4 micro serie di shoulder press (o lento con manubri o con altri esercizi simili) intervallati da un minutino di riposo e con reps che non devono superare le 6 o 7 unità, potete essere pronti per il primo esercizio. Personalmente scelgo proprio la shoulder come esercizio preliminare. Il deltoide è biomeccanicamente molto più complesso del bicipite, ci consente di portare il braccio in avanti, verso l’alto, lateralmente e posteriormente. Questo è un concetto che andrebbe sviluppato meglio anche per le articolazioni che entrano in gioco e i muscoli ausiliari che partecipano al movimento, ma ne discuteremo in altro articolo.

Ci siamo, quindi, riscaldati. Possiamo passare alla rottura degli equilibri bianchi…
Due serie pesanti, consapevoli, esplosive ma controllate nella discesa, 6-7 colpi…non di più, 2 minuti pieni di recupero per ripristinare l’ATP…forced-reps? Si, grazie!
Le seconde 2 serie….12 -15 reps, lente, controllate, senza interruzioni nell’esecuzione, pompa il sangue, brucia…brucia…Forced reps? Si, grazie…..Abbiamo sfondato l’anteriore….ora tocca al laterale!

Adesso comincia il tormento… Questo è l’esercizio più massacrato in assoluto dai body builders di tutto il pianeta. Ovvio, poi ci sono le locali, il Sinthol e le prostaglandine, ma questa merda la lasciamo agli sconfitti che senza vittorie di Pirro non vivono.
Occorre posizionarsi extraruotando le scapole, un pò come facciamo quando ci poniamo davanti ai giudici durante le rilassate in gara. Più “larghi” possibile, insomma. Da questa posizione non dobbiamo muoverci. Ora, è importante non fare entrare in gioco i trapezi, che si immischiano sempre volentieri perché sono molto più forti dei laterali e la natura chiede che l’anello forte della catena cinetica entri sempre in aiuto in questi movimenti. Tenete i gomiti larghi ed esterni, come se aveste una piccola anguria sotto le ascelle che vi faccia tenere una grottesca ma utilissima postura da bullo di quartiere. E’ difficile spiegare bene un esercizio senza immagini a supporto, e già con quelle è un bel casino…

Partite quindi da questa posizione, tenendo i manubri all’altezza della parte alta del bacino con IL PALMO DELLA MANO RIVOLTA VERSO IL SOFFITTO, con il braccio così piegato alzate il manubrio lateralmente, ruotando la mano nel contempo fino ad avere il mignolo verso l’alto. Mi raccomando, occorre capire una cosa fondamentale….
CIO’ CHE FA’ CONTRARRE IL DELTOIDE LATERALE E’ L’ALZARE IL GOMITO E NON LA MANO !!! Paradossalmente, potreste lavorare il deltoide senza avere l’avambraccio, soltanto avendo il manubrio legato al gomito. Questa è la teoria esatta che ha portato alla costruzione di macchine che si basano su questo principio, tipo la lateral shoulder press, molto in voga negli USA….
Tornando in basso occorre tracciare lo stesso itinerario, arrivando in basso girando di nuovo il polso e mantenendo la nostra anguria sotto le ascelle.

Anche in questo caso, 2 serie pesanti ma fatte alla perfezione, da 7-9 reps le ultime delle quali eseguite anche un po’ “malamente”, aiutandosi con un moderato cheating ed urlando un paio di grotteschi lamenti. Le seconde 2 serie,eseguite con britannico atteggiamento…perfette, localizzate, lente, a pompaggio….brucia,brucia è l’imperativo! Forced reps? Solo se lo spotter è in gamba e mi aiuta senza privarmi della contrazione ottimale…altrimenti,meglio fare da soli…
Dovete sentire un dolore localizzato al centro deltoide, altrimenti c’è qualcosa che non quadra…90 secondi di riposo per le serie pesanti….60 bastano per le serie “rosse”….Avete presente l’esercizio fatto alla delt’s machine, visualizzatelo con i manubri…Non arrivate in fondo al movimento …Bloccate l’escursione del gomito una ventina circa di cm. prima di arrivare a toccare i fianchi. Il resto del movimento è gestito dal blocco avambraccio-mano. Provate, quindi, a tenere il gomito all’esterno, le mani,come detto, con il palmo rivolto verso l’alto e i manubri davanti alla radice della coscia. Questa è la posizione di partenza…se la gestite esattamente sarete posizionati come il Body Builder nelle pose rilassate frontali, dove cerchi di essere più ampio possibile. Nelle classiche alzate laterali generalmente l’ esecuzione da’ troppo risalto all’azione del trapezio. Chi se ne intende ed avesse un elettromiografo a disposizione, capirebbe che buona parte del movimento è però gestita dal trapezio.

Ora, dò per scontato che alleniate i posteriori insieme al resto del deltoide, ma biomeccanicamente ci starebbe anche che li allenaste nel blocco della “schiena”…
Il deltoide, nel suo capo posteriore, è estremamente difficile se non impossibile da isolare…Qualunque esercizio, anche il più raffinato, spara “a lupara” in tutta la schiena medio-alta, coinvolgendo romboide, trapezio, sovra e sottospinati e distretti vari che difficilmente crescono al meglio con esercizi di questa fatta, ma che si scatenano con rematori e stacchi “alla vecchia”. Comunque non desistete, un buon lavoro con i manubri a 90° tenendo i gomiti in avanti, senza lasciarsi trasportare dalla tentazione di portarli indietro. Questa è una comodità che si prende il corpo per evitare che lo sforzo sia troppo a carico di muscoli deboli come il posteriore, e cercando di scaricare il più possibile su “bestie da soma” come trapezi e gran dorsali.
Stesso itinerario….2 serie belle corpose….2 serie gestite col compasso e coi guanti di velluto….Questa è solo una delle infinite possibilità di miscellanea tra gestione di serie, esercizi, metodiche di allenamento, e tutto ciò fa…..GIOIA DI SFONDARSI DI ENDORFINE!!!!!!!!!!!!!

Domande:

  • Non ho capito cosa intendi per “extrarotazione” delle scapole? Per me l’extrarotazione della scapola è un “fare spallucce” tipo scrollata. Intendi quello?
  • Come si fanno le alzate laterali tenendo il palmo della mano rivolto verso il soffitto?
  • Consigli (per es per le spalle, quindi primo esercizio una press o un lento) di fare prima 2 serie che influenzano più il sistema nervoso (2×6-8 con pesoni) e rallentare in questo momento l’acidificazione per poi sfruttarla a dovere dopo con serie “immacolate” dal cheating e più lunghe (x14-5 rip)…se le mie premesse sono giuste (nel senso che ho capito ciò che ci volevi tramandare secoli secolorum); perchè poi consigliare la stessa metologia con alzate laterali e con fly 90°? Non sarebbe meglio dividere l’allenamento in due momenti o (in teoria) situazioni metaboliche differenti? Esempio:

1) lento 2 x 6, alzate laterali 2×6, fly 90° 2 x 6 con 2 min di recupero tra i sets con forzate etc..

2) lento, alzate laterali e fly 90° tutti con 2×14-6 rip 1 min e tecnica precisa…non avrebbe più senso per le tue premesse? Magari ho scritto tante stupidaggini e non ho capito una mazza di quello che mi volevi dire.

Risposte:

  • Diciamo così….ti allarghi più che puoi per far sì che il trapezio non intervenga nel movimento, e porti anche le spalle leggermente in avanti.
  • Solo la partenza ha il palmo rivolto in alto..ti consente di “esternare” il deltoide al massimo prima di compiere una intera rotazione in fase di risalita.
  • L’osservazione è acuta, ma tu devi pensare che con le alzate laterali metti in azione fasci muscolari diversi rispetto al lento. la descrizione iniziale fungeva da didattica descrittiva a livello di anatomia funzionale spicciola, per far capire ai giovani virgulti che l’allenamento di un muscolo non va gestito in base alle sole dimensioni dello stesso, ma soprattutto in base alla complessità delle sue possibilità biomeccaniche. Questo è il motivo che mi ha spinto a considerare il laterale come un muscolo “a se stante” ripetendo l’iter “bianco-rosso” attuato con il lento. non esistono leggi…solo una gestione della logica più equilibrata possibile…

Piero Nocerino,
Professional Body Builder.

Riabilitazione: come prima, più di prima

Che cosa succede ad un muscolo sottoposto ad un lungo periodo riabilitativo successivo ad un evento lesivo ?

E più specificatamente cosa accade al quadricipite femorale di un calciatore in conseguenza alla fase fisioterapica che segue un intervento riscostruttivo di legamento crociato anteriore o dopo meniscectomia?

Possiamo rispondere a questa domanda, invero credo molto importante per le conseguenze metodologiche nell’ambito dell’allenamento, grazie a due ricerche che abbiamo recentemente condotto appunto in quest’ambito (Bisciotti e coll., 2001, Bisciotti e coll., 2001).

Occorre innanzi tutto fare una premessa molto importante: i piani di lavoro fisioterapici, per quanto indispensabili al fine di ristabilire la piena efficienza muscolare, costituiscono, per il muscolo, un vero e proprio “bombardamento di impulsi a bassa frequenza” decisamente molto indirizzato al lavoro delle fibre lente (fibre di tipo I) ed altrettanto decisamente poco specifico all’interessamento delle fibre veloci (fibre di tipo II) e come vedremo in seguito, questo comporta una possibile componente di rischio per la muscolatura di un calciatore che suo malgrado debba sottoporsi ad un piano riabilitativo piuttosto protratto nel tempo. Ma torniamo ai parametri muscolari che maggiormente subiscono un cambiamento dopo un evento lesivo, come abbiamo detto a livello dell’articolazione del ginocchio, e dopo il conseguente periodo fisioterapico che ad esso consegue.

In primo luogo la muscolatura della coscia in toto (ossia i flessori e gli estensori) perdono in quanto a capacità di forza massimale, anche se per la precisione occorre puntualizzare che la perdita di forza a carico dei flessori ( bicipite femorale) è molto limitata (circa 8%), in confronto allo scadimento delle capacità di forza massimale degli estensori (quadricipite femorale), che possono ancora essere nell’arto leso, al 90° giorno post-operatorio nel caso di un legamento crociato anteriore, ancora minori di un 30-35% nei confronti delle capacità di forza dell’arto sano.

Ma il fatto, almeno a prima vista paradossale, è che nell’arto leso, a fronte di una più che logica perdita delle capacità di forza massimale, si registra, appunto paradossalmente un aumento delle capacità di resistenza muscolare. Facciamo un esempio pratico per meglio comprendere il significato di questa affermazione, invero un po’ strana. Prendiamo l’esempio di un atleta infortunato i cui valori di forza massimale isometrica a carico del quadricipite femorale, a circa novanta giorni dall’intervento operatorio, siano di 80 kg nell’arto sano e 54 kg nell’arto leso. Il deficit di forza a carico dell’arto leso sarà del 30% e sino a questo punto non ravvisiamo ovviamente niente di strano, la differenza registrata rientra infatti nel range medio riscontrabile in questo tipo di casistica. Se a questo punto chiediamo allo stesso atleta di mantenere una contrazione isometrica pari al 50% delle capacità di forza massimale, sia nell’arto leso, che nell’arto sano (ossia 40 kg per l’arto sano e 28 kg per la gamba lesa) sino ad esaurimento muscolare completo, ci accorgeremmo, direi con sorpresa, che la gamba lesa riesce a mantenere lo sforzo per un tempo maggiore di circa il 22%, in altre parole il quadricipite dell’arto leso è, a parità d’intensità percentuale di sforzo, più resistente di quanto non sia il quadricipite dell’arto sano. Come mai la muscolatura dell’arto leso diviene meno forte, come logicamente ci si può attendere, ma nel contempo più resistente, rispetto all’arto sano? La responsabilità, se di responsabilità si può parlare, è del programma fisioterapico, o meglio ancora della sua lunghezza. Come abbiamo già detto inizialmente, a giusta ragione un programma riabilitativo prevede tutta una serie di esercitazioni il cui denominatore comune è costituito da stimoli a bassa frequenza, che interessano principalmente la fibra di tipo I ed in un certo qual modo “mortificano” le caratteristiche della fibra di tipo II. Vale la pena ricordare che la caratteristica peculiare della fibra di tipo I è la scarsa velocità di contrazione ma la grande resistenza alla fatica, mentre le caratteristiche della fibra di tipo II sono diametralmente opposte: grande velocità di contrazione ma scarsa resistenza.

Un programma riabilitativo protratto per un periodo di tempo prolungato porta quindi ad un doppio inconveniente costituito, sia da un’atrofia selettiva delle fibre di tipo II, che da una conversione della tipologia delle fibre da tipo II a tipo I. Svelato l’arcano, possiamo facilmente comprendere come questo processo di atrofia selettiva e conversione tipologica delle fibre, costituisca, in un’attività come il calcio, un vero e proprio pericolo potenziale. Nel calcio infatti, come d’altronde anche in molti altri sport di squadra, come il basket, il rugby o la pallamano, all’atleta vengono richiesti sforzi di tipo esplosivo come balzi, accelerazioni o repentini cambi di direzione, in cui è necessario un rapidissimo reclutamento di fibre di tipo II. E’ quindi ovvio pensare che un massiccio cambiamento della tipologia delle fibre muscolari del quadricipite dell’arto leso, possa costituire un forte elemento “destabilizzante” nella meccanica del gesto.

Allora che fare?

Questo indice di maggior resistenza (22% circa) dell’arto leso rispetto al controlaterale sano, che abbiamo appunto desunto da una ricerca specifica da noi effettuata su calciatori infortunati, dovrebbe essere, a nostro parere, assunto come valore limite oltre il quale si può ragionevolmente supporre che il cambiamento della tipologia delle fibre muscolari stia divenendo eccessivo. A questo punto diviene estremamente necessario, per quanto possibile, inserire nel programma di lavoro delle esercitazioni specifiche di connotazione dinamica che riescano a sollecitare selettivamente le fibre di tipo II, per cercare di riequilibrare la tipologia muscolare dei due arti.

Come calcolare la resistenza muscolare della muscolatura estensoria dei due arti?

Vi proponiamo due metodi: il primo più “scientifico” ed il secondo, se vogliamo “un po’ più empirico” ma egualmente valido.

1° metodo: Calcolate attraverso l’Ergometer (Globus Italia, Codognè, Traviso) la forza massimale isometrica dei due arti separatamente. Selezionate il programma specifico denominato fatigue test, e chiedete all’atleta di mantenere, durante una contrazione isometrica, il 50% della forza massimale precedentemente calcolata per i due arti separatamente. Se con l’arto leso il vostro atleta riesce a mantenere la contrazione richiesta per un tempo superiore del 22% rispetto all’arto sano, è il momento di rivedere il programma riabilitativo.

2° metodo: Calcolate attraverso il metodo classico illustrato nel riquadro, la forza massimale del quadricipite del vostro atleta, sia per l’arto sano, che per l’arto leso. Chiedetegli poi di effettuare con il 50% del carico massimale una serie di ripetizioni ad esaurimento muscolare completo, sia per l’arto sano, che per l’arto leso. Se il numero di ripetizioni effettuate con l’arto leso, supera del 22% quelle effettuate con l’arto sano, il programma di lavoro dovrebbe essere senz’altro rivisto.Tabella 1 : valore percentuale di forza massimale in funzione del numero massimo di ripetizioni effettuate

Come calcolare “empiricamente” la forza massimale

Stabilite un carico e richiedete all’atleta di effettuare il massimo numero di ripetizioni possibili. Per ottenere un risultato preciso, cercate di individuare un carico con il quale l’atleta non riesca a effettuare più di 5-6 ripetizioni, eventualmente effettuate più prove, intervallate da un adeguato recupero (2’-3’). Se ad esempio il vostro soggetto è riuscito ad eseguire 5 ripetizioni con 60 kg, per calcolare la sua forza massimale, impostate la seguente proporzione:

60 : 85 = x : 100

Ossia 60 kg costituiscono l’85% delle capacità di forza del soggetto (i valori li desumete dalla tabella 1) come X, che costituisce il carico che rappresenta la vostra forza massimale, sta a 100 (ossia il 100% delle capacità di forza)

Nell’esempio specifico che abbiamo riportato il valore di forza massimale sarà:

60 * 100 / 85 = 70.5 kg.

Per chi volesse saperne di più…

Bisciotti GN., Bertocco R., Ribolla PP. Electromyographic analysis in the anterior cruciate ligament reconstruction: a new method for control and prevention.Medicina dello Sport. In Press
Bisciotti GN., Combi F., Forloni F., Petrone N. Stamina increase and change of muscular fibers typology in the reconstruction of anterior cruciate ligament. Journal of traumatology..Submitted.
Snyder-Mackler L., Ladin Z., Schepsis AA., Young JC. Electrical stimulation of the thigh muscle after reconstruction of the anterior cruciate ligament. J Bone joint Surg. 1991 ;73A : 1025-1036.

Gian Nicola Bisciotti
Dr. in scienze motorie

Ruolo dell’esercizio fisico e della nutrizione in menopausa

L’incidenza delle malattie cardiovascolari aumento esponenzialmente con l’avanzare dell’età, in particolar modo nel periodo della menopausa, per l’effetto della caduta dei livelli di estrogeni.

Le malattie coronariche (infarto-ischemia cardiaca) rappresentano la principale causa di morte nelle donne in post-menopausa. Noi oggi conosciamo quali sono i fattori di rischio principale di queste patologie: il fumo di sigaretta, l’ipertensione (pressione alta), ipercolesterolemia (aumentati livelli di colesterolo LDL “cattivo”), l’obesità, la familiarità, la menopausa e uno stile di vita sedentario.

Ovviamente la menopausa e la familiarità sono fattori di rischio immodificabili, mentre sugli altri fattori di rischio possiamo e dobbiamo agire in prima persona, effettuando esercizio fisico ed alimentandoci in maniera corretta.

Raccomandazioni nutrizionali

Nel 2007, l’American Heart Association (AHA) ha pubblicato le linee-guida per le donne sull’esercizio fisico e sulla nutrizione.

Si raccomanda:

  • che la quota di grassi (lipidi) introdotti con la dieta non rappresenti più del 30 % del totale delle calorie giornaliere assunte;
  • i grassi saturi non devono essere più del 10 % delle calorie assunte
  • introduzione di massimo 300mg/die di colesterolo
  • assunzione di 2 g/die di steroli vegetali
  • assunzione di 25 g/die di fibre solubili
  • le proteine devono rappresentare massimo il 15 % delle calorie giornaliere
  • assunzione di frutta e verdura in quantità abbondante specialmente nei fumatori (per il loro potere antiossidante)
  • assunzione di 1.7 mg/die di vitamina B6 e 400 microgrammi di acido folico/die
  • supplementazione con acidi grassi omega-3 (850-1000 mg /die)

Ovviamente oltre ai questi consigli nutrizionali si raccomanda l’effettuazione di attività fisica. Un altro parametro da tenere strettamente sotto controllo è la pressione arteriosa che non deve essere > 120/80 mmHg

Ruolo dell’esercizio fisico

Studi recenti hanno confermato che l’attività fisica gioca un ruolo chiave nella prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari, riducendo il rischio del 30-50 %. L’inattività fisica di contro rappresenta, come precedentemente descritto, un fattorie di rischio importante e contribuisce ad alimentare altri fattori di rischio associati quali: diabete, obesità, ipercolesterolemia ed ipertensione. L’attività fisica deve ovviamente essere personalizzata, anche se le raccomandazioni generali sono di effettuare 20 min/die di attività fisica moderata o un totale di circa 2-3 ore a settimana. Le donne in menopausa hanno una risposta all’attività fisica migliore rispetto alle donne in età fertile, evidenziata dall’abbassamento dei livelli di colesterolo LDL (“cattivo) dell’ordine del 30 % ed una aumento del colesterolo HDL (buono) del 15-20 %. Per ottenere questi risultati l’attivi fisica deve essere continuativa (almeno 4 mesi), e si calcola che sia sufficiente camminare per 8-12/Km a settimana per un abbattimento del rischio cardiovascolare.

Obesità

Rappresenta un fattore di rischio per molte patologie che hanno un notevole impatto sulla salute e sul benessere quotidiano: diabete, ipertensione, artrite degenerativa, nefropatie, cirrosi epatica e alcune forme di tumori. Il meccanismo con cui l’eccesso di tessuto adiposo agisce nella genesi di tutte queste malattie è da ricondurre all’aumento della resistenza insulinica indotta dal tessuto adiposo con conseguente aumento dei livelli ematici dell’ormone. Questo aumento è reversibile e l’esercizio fisico promuove una maggiore risposta all’azione dell’insulina e quindi un abbassamento dei livelli di questo ormone, riducendo notevolmente il rischio cardiovascolare. Un indice di massa corporea (BMI) > 27 Kg/m² si associa ad un elevato rischio di malattie cardiovascolari. L’AHA raccomanda di mantenere l’indice di massa corporea tra i 18.5 e 24.9 Kg/m²

Osteoporosi

Negli USA circa il 15 % delle donne intorno ai 50 anni soffre di osteoporosi ed il 35-50 % ha una riduzione della massa ossea di meda entità (osteopenia). Le conseguenze a cui possono portare queste condizioni sono note da tempo: fratture vertebrali, frattura di femore e delle altre ossa lunghe. Una volta che l’osteoporosi è arrivata ad gradi elevati, il processo diventa sostanzialmente irreversibile e le strategie terapeutiche sono limitate. Quindi bisogna agire prima che questa condizione si realizzi prevenendo la perdita di massa ossea. Le strategie preventive constano di due momenti fondamentali: la dieta appropriate l’esercizio fisico. Ovviamente non ci si può astenere dall’eliminare uno dei più importanti fattori di rischio: il fumo di sigaretta. Un adeguata assunzione di Calcio e vitamina D previene la perdita di matrice ossea e riduce il rischio di fratture. La supplementazione con Calcio in menopausa riduce del 30-50 % la perdita di massa ossea. Le dosi consigliate sono 1200-2000 mg/die di Calcio e 600-800 UI di vitamina D. Per quanto concerne l’esercizio fisico deve essere effettuato almeno due volta a settimana e per almeno 12 mesi per ottenere risultati in termini di minor perdita di massa ossea. L’attività fisica deve essere di entità moderata-intensa (30-45 minuti al 70-85 % della frequenza cardiaca massima).

Conclusioni

La dieta e l’esercizio fisico rappresentano due strategie terapeutiche tra le più efficaci nel promuovere il benessere, la salute , ma soprattutto nella prevenzione delle patologie cardiovascolari, dell’osteoporosi e dei tumori. Essi hanno inoltre un effetto curativo nel momento che la patologia si è instaurata in casi di malattie cardiovascolari, diabete, dislipidemie, osteoporosi. Ovviamente prima di intraprendere l’attività fisica ci si deve rivolgere a personale specializzato , in grado di personalizzare e bilanciare l’entità e la tipologia di attività fisica da svolgere in totale sicurezza.

 

Dr. Massimo Maria
Medico Chirurgo
Specializzando in Ginecologia ed Ostetricia